1981-02 "Un caporal maggiore antimilitarista" - Lettera a 'La Repubblica'

Parlare di antimilitarismo mentre si presta servizio militare è perlomeno grottesco, pensare poi di poterlo praticare è frutto solo di una fertile fantasia. Cercare di capire la nostra posizione, abituarsi ad analizzare le nostre condizioni, discutere e proporre sono invece delle necessità vitali.

è chiaro che noi siamo solo le pedine di un gioco molto più grande di noi, anche più grande dei nostri comandanti, ma dovremmo sapere che il mondo investe sempre più denari in armi, atomiche e tradizionali, e che solo l’Occidente ha quadruplicato le proprie spese dall’ultima guerra fredda. Oramai le armi sono la valvola di sicurezza dell’intera economia occidentale, da contrapporre al petrolio, e sono quindi la controprova inappellabile della militarizzazione della società. Le spinte autoritaristiche aumentano sempre di più in tutto il mondo e sempre con ragioni mistificate. In Italia una motivazione è data dalle Brigate Rossi, al servizio di chi vuole uno Stato più duro, o di che in definitiva, vuole ridurci sempre e comunque a semplici marionette. Questo è un gioco infernale, su cui si gioca il futuro, il nostro futuro e quello dei nostri figli (?).

I giornali e la Tv fanno la loro parte facendo credere leggi immutabili, regolamenti ovvi delle cose che invece sono inutili o che andrebbero almeno ridimensionate.

In questa situazione ci inseriamo noi, giovani violentati per un anno dai nostri sogni, dai nostri piccoli progetti e scaraventati in una città fredda e lontana, viviamo in condizioni allucinanti, obbediamo a ordini ridicoli (tagliarsi i capelli, portare il basco, le scarpe lucide, la mimetica pulita e le mutande sporche) e assistiamo impassibili a tutte le storture del sistema. Ora, bisogna dire che qualcosa è cambiato, sotto l’onda del rinnovamento suscitato dalle proteste degli anni 68-70 e che le leggi sono tutt’altro che immutabili e si relativizzano agli uomini e all’epoca. Ma per cambiare bisogna discutere, stare attenti, non farsi prendere in giro dalla falsa democrazia del COBAR e soprattutto cambiare noi, fare noi: finchè l’esperienza accumulata nei lunghi mesi dell’anno non sarà al servizio dei nuovi arrivati, ma sarà la prevaricazione principale a qualsiasi tipo di amicizia e confronto, il servizio di leva sarà sempre l’estenuante, infernale “anno che non passa mai”.

Finchè si conteranno sempre i giorni che mancano al congedo e mai le trasformazioni che siamo riusciti ad operare ed imporre, la naja sarà sempre un anno perduto. Ho un momento di fiducia universale (che costa averla?) ma dobbiamo pensare che questa stortura possa cambiare, possa muoversi fino ad arrivare ai reali desideri dell’uomo. Non saremo noi a rinnovare tutto, ma forse cento, mille di noi…

 

Lettera a “La Repubblica” – Febbraio 1981

Alfredo De Giuseppe

 

 

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