2005-11 "Vivere da Best" - Il Gallo

Una volta giocavo a calcio. Me ne dimentico spesso, eppure per anni l’ho fatto come attività principale. Martedì, giovedì e venerdì allenamento, domenica partita, poi lunedì e mercoledì allenatore dei ragazzi, il sabato la loro partita. Sette giorni ogni santa settimana, per quasi un decennio, nel campo sportivo di via matine, a ingoiare terra mista a sansa, a sproloquiare con Antonio Peluso, Gino Felline e tanti amici. Eravamo giovani e belli, mi vien da dire, ma forse solo magri e con i muscoli naturali. Eppure oggi mi chiedo il perché di tanta rimozione, di tanta noia nel vedere, nel sentire il calcio. Sarò un egocentrico che ama solo ciò che gli appartiene? Sto invecchiando male, vivendo nostalgicamente qualsiasi avvenimento che abbia più di vent’anni? Queste riflessioni mi vengono in mente oggi, venerdì 25 novembre 2005, alla notizia della morte di George Best, uno dei miei idoli infantili. Nonostante non fosse possibile vedere partite delle altre nazioni, benché le figurine Panini parlavano degli stranieri solo nell’anno dei Mondiali, andavo a cercare sui giornali, non solo sportivi, tutte le notiziole che riguardavano Best. Questo miscuglio magico di genio e sregolatezza mi ha condizionato tutta la vita (e forse non solo calcistica). Quando ho potuto, ho letto i suoi libri, visto i film che parlavano di lui. Per un periodo avevo preso il calcio come vero paradigma dell’esistenza, vittorie, sconfitte, pareggi per accontentarsi. Non guardo più volentieri questo calcio e mi chiedo perché, se c’è sempre il pallone al centro campo, il rigore e le traverse. C’era un che di romantico e ancestrale che man mano è sparito sotto la vernice dei rotocalchi patinati.

Ho amato infine Roberto Baggio, anche lui uno fuori dagli schemi. Nel suo libro “Una porta nel cielo” c’è una dimensione umana davvero bella, dove il sogno di un ragazzino si unisce alla difficoltà dell’adulto, benché divo, ricco e fortunato. Avere rapporti con tutti quei saccenti che ti odiano sol perché non corri come un Gattuso è davvero difficile, è come aspirare di volare e avere sempre affianco uno che ti deride. I ragionieri di tutto ci hanno portato ad un mondo sempre più piatto, sempre meno divertente, nonostante lussi e giochini stellari, tv collegate in tempo reale, moviole e interviste a tutte le ore.

Il calcio nel Salento  degli anni sessanta e settanta viveva di piccole magie, di piccole avventure, la vittoria in campo avverso era come aver espugnato una città medievale, la vittoria in casa aveva il sapore dell’onestà verso quei tifosi che mantenevano la loro squadra con pochi soldi e molta passione. Non c’erano i tornei internazionali, non c’era calcio in Tv, specie d’estate, e si organizzava un semplice, ma bellissimo, “torneo dei bar”. Ho trovato una foto di quegli anni, di quei tornei: io ero lì, con i calzettoni abbassati e i capelli lunghi, fra un mastodontico Gigi Urso e un nordico Girelli. Affianco a me un ragazzo italiano, forse di Tricase, emigrato in Inghilterra che giocava nella loro serie B. Sotto la doccia, mi raccontava delle vasche comuni di acqua calda a fine partita, delle birre al pub, quando si usciva dallo stadio. Rimasi affascinato da quei racconti che tanto si assomigliavano all’iconografia di Best. Per me il calcio era l’aspetto ludico dell’uomo, portato al suo eccesso, senza eccessi. Senza neanche la necessità della tecnica o della scienza. Così George Best, nel suo ultimo libro, descriveva il suo calcio: “Miseri campi d’allenamento, alimentazione orrenda, terreni di gioco fangosi, stadi gremiti, canzoni stupende, arcigni centromediani, centrattacchi inarrestabili, allenatori per sempre nella stessa squadra, magliette senza sponsor, calci d’inizio alle tre del pomeriggio e, dopo novanta minuti a prendere e tirar calci, una birra scura in una vasca d’acqua sporca”.

Per non farci mancare tutto questo, per non soffrire per cose così banali, per non esser sempre bastian contrario, abbiamo rimosso tutto. Ciao George Best

Il Gallo - Novembre 2005

Alfredo De Giuseppe

 

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