Vincolo cimiteriale*

Quando mia madre morì, colpita da leucemia fulminante, eravamo nel bel mezzo del 1962. Lei aveva ventisette anni, io ne avevo quattro e stavo sempre col pallone in mano. Mia sorella, ancora più piccola di me, vestiva con larghe gonnelline. Per i dieci anni successivi, o forse più, io e mia sorella, insieme alla nonna materna e a mio padre saremmo andati ogni domenica al cimitero. Al pomeriggio ci saremmo infilati prima nell’Autobianchi panoramica e poi, grazie al boom economico, nella più comoda FIAT 600 e saremmo partiti, con in mano un fiore o un lumino a far visita alla nostra mamma, che io e mia sorella già non ricordavamo più. Andavamo senza fretta verso il cimitero comunale, ormai al centro del paese grazie ad un’imprevista e rapida speculazione edilizia che aveva colpito tutta la zona circostante: il vincolo cimiteriale era stato facilmente aggirato.

Sembrava arrivassimo a teatro: il custode calvo e grosso ci salutava calorosamente, seduto fra le corone di fiori dell’ultimo funerale, poggiate al muro esterno del suo modesto rifugio; le vecchiette ci accarezzavano con le loro mani callose; il viale principale era un tappeto nero catrame verso lo spettacolo finale. Sul viale laterale nonna e papà trovavano sempre qualcuno con il quale condividere lunghi momenti di reciproca compassione, o meglio, di confronto ponderato sui diversi gradi di dolore, calcolo basato sulla gravità della perdita, sul tempo trascorso dal tragico evento e sulla difficile riorganizzazione familiare che chiaramente cambiava a seconda della qualità economica del defunto.

La cappella di mia madre era quella della parrocchia di Tutino, dove mia nonna aveva da ricordare un altro figlio ventottenne morto d’infarto appena un anno prima, e suo marito Alfredo, scomparso subito dopo la guerra per una banale influenza. Nei primi anni contavo quante salme fossero sepolte e quanti loculi fossero ancora vuoti, poi col passare degli anni, mentre la cappella si completava nei suoi sessantaquattro posti, io diventavo più autonomo. Ogni domenica facevo il giro dell’intero cimitero, alla ricerca di angoli nascosti, di sepolture misteriose e di foto strane, poste dai parenti sulle lapidi in marmo. Nei trenta o forse sessanta minuti durante i quali mia nonna e mio padre ricordavano le loro giovani dipartite con il Padre Nostro che sei nei Cieli, io mi soffermavo sulle lapidi piccole dei bambini e soprattutto sui giovani che erano morti in guerra. Tentavo di  scoprire in quale terribile battaglia avessero perduto la vita, il perché di quella morte che mi appariva avventurosa e forse esotica.  Notizie quasi mai disponibili e irrimediabilmente perse, a discapito di una morte avvenuta per un eroismo forzato o addirittura falsificato.

Incontravo delle vecchiette terribili e in genere bruttissime. C’era Maria che era una specie di suora laica o forse una suora mancata, vestita sempre col nero di una perpetua che si accinge a cucinare. Andava in continuazione verso la piccola fontana per cambiare l’acqua ai fiori di chiunque, anche senza che le fosse richiesto. Lo faceva molto spontaneamente per tutti coloro che sapeva le avrebbero lasciato una piccola mancia. Non sopportava i poveri ed era scorbutica con i taccagni: faceva l’impossibile per non lasciare libero l’uso della fontanella per interminabili minuti. Maria risciacquava continuamente i contenitori in vetro dei fiori fino a far capire a tutti chi fosse la vera padrona del cimitero. Con noi era molto cortese, specie vicino a papà, perché eravamo assidui frequentatori e inclini alla generosità. Io approfittavo di quest’apertura di credito per scorrazzare libero fra vialetti e cappelle private, senza essere rimbrottato per le corse e le domande insolenti. Così conobbi la signora Esmeralda che trovavo solitamente seduta fuori dalla cappella di famiglia a recitare un lunghissimo rosario, che interrompeva ad ogni passante, col quale scambiava lunghe disamine sulla vita e sulla morte di suo marito. Dopo un po’ di anni sapevo tutto del signor Michele che era morto nel 1951, che aveva fatto la seconda guerra mondiale e che aveva qualche problema di impotenza e di stitichezza. Lei aveva la capacità di ricominciare il rosario esattamente da dove l’aveva interrotto, cambiando improvvisamente il tono di voce e di contrizione. Mentre mia nonna si sforzava di non piangere e in accordo con mio padre di raccontarci pochissimo di mia madre e di mio zio, sapevo un sacco di particolari sulle morti dei vicini e soprattutto sulle vite dei ricchi proprietari di cappelle private. Quelle dinastie erano tanto conosciute da essere anche più soggette al pettegolezzo cimiteriale, per cui si raccontava della figlia adottata che non portava mai fiori di qualità, oppure della nuora che andava al cimitero solo il due novembre. C’era il maresciallo in pensione che girava fra le cappelle come fosse in una rassegna militare, ed anche l’impiegato comunale dell’anagrafe che sapeva tutti i nomi a memoria e loro parentele fino alla quinta generazione.

Si parlava di persone morte con la naturale atmosfera di cose sconosciute, senza mai un vero moto di pietas, senza lacrime. Non ho mai sentito la parola “insopportabile”, né piangere una giovane vita troncata all’improvviso, pensavo fosse addirittura vietato versare lacrime al cimitero comunale. In pubblico si parlava solo di date, circostanze, costi e contestazioni, particolari la cui manifesta vacuità sembrava portare un qualche sollievo. C’era spazio in quantità per le apparenze, commemorazioni e recitazioni. In definitiva  una specie di costante difesa del nostro cervello: non pensare davvero alla morte permette di vivere, non piangere per sempre una persona cara permette di vedere il futuro, la leggerezza come espediente culturale. Così col passare degli anni la preoccupazione maggiore di mia nonna era diventata la posizione dei loculi dei suoi due figli. Le dava tremendamente fastidio che uno fosse stato sepolto in seconda fila e l’altro in terza. Lottava per metterli sullo stesso livello, uno accanto all’altra, come a tenersi per mano. Era alle prese ancora con un fatto pratico, mentre la morte come fine di tutto, come mistero profondo e compendio di una vita, lasciava lentamente il campo.

Intorno ai quattordici anni cominciai a pormi delle domande, tipo che cosa si pensa un attimo prima di morire oppure: si è consapevoli dell’imminente fine di tutto? Quando iniziai a leggere dei libri e a realizzare alcune risposte, mi resi conto che mi ero allontanato da varie ipotesi di disegni divini, dai quali comunque ero partito. Pur rimanendo con tutti i dubbi del caso, era ormai giunto il tempo di giocare nella squadra Allievi del calcio cittadino. La domenica pomeriggio sarei stato impegnato per oltre venti anni in dribbling e lanci verticali, lontano da quell’amorevole  e vivace vincolo cimiteriale.

Alfredo De Giuseppe

*ANTICIPAZIONE in esclusiva dal libro “58 racconti finali”

 

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