2019-08 "Il lavoro è un ottimismo" - 39° Parallelo

Il dramma del lavoro in Italia, sta tutta in una sola frase pronunciata qualche giorno fa da  Giuseppe Bono, Amministratore delegato di Fincantieri, nel corso di un convegno:  “Nei prossimi due o tre anni avremo bisogno di 5-6 mila lavoratori ma non so dove andarli a trovare: carpentieri, saldatori, abbiamo lavoro per 10 anni e cresciamo ad un ritmo del 10 per cento, ma sembra che i giovani abbiano perso la voglia di lavorare, preferiscono fare i rider a 5-600 € piuttosto che lavorare da noi a 1.600 € al mese”.

Negli ospedali mancano medici: vengono richiamati dottori in pensione o medici di altre nazioni, che a malapena conoscono la nostra lingua (da qui al 2025 ne potrebbero mancare 16.000 solo nel settore pubblico). Nei supermercati è sempre più difficile trovare macellai o salumieri. Non ci sono più falegnami e si fa fatica a trovare un muratore se hai un’azienda di costruzioni. In una nazione con un altissimo tasso di disoccupazione reale, ci sono tante posizioni vuote. È in questo corto circuito che bisogna indagare e approfondire per capire se c’è una soluzione.

Ci sono state negli anni delle scelte che sono sembrate assurde e in effetti hanno prodotto dei disastri annunciati. Una per tutte: il sostanziale declassamento della scuola professionale. Una scuola divenuta recinto per ragazzi disagiati invece che motore di una economia in trasformazione. Due riforme in sei anni (Gelmini nel 2011 e Toccafondi nel 2017) che come al solito erano solo un ritocco al ribasso. Scuole abbandonate, senza mezzi tecnici, senza sbocchi immediati, senza contatti col territorio, senza appeal per studenti e famiglie. In 15 anni si sono dimezzati gli studenti degli Istituti professionali, c’è qualcuno che ne ha fatto un titolo sui Tg? Nella sostanza la crisi delle scuole professionali è l’altra faccia dell’abbandono dell’Alternanza scuola lavoro. Alla Camera il ministero ha rivelato che nell’anno scolastico appena chiuso solo il 53 per cento degli studenti ha svolto l’Alternanza (nel 2017-2018 era stato l’89 per cento). Le strutture ospitanti sono passate da 208 mila a 190 mila. Chi farà l’idraulico in futuro?

D’altro canto le Università italiane sfornano meno laureati della media europea, dove invece ne avremmo un gran bisogno. Solo il 4% della popolazione è laureata contro il 17% della media OCSE.  Inoltre i più bravi, appena laureati, scappano verso lidi lontani, dove l’ottenuta professionalità viene ben remunerata. La soluzione del numero chiuso, insieme all’alto tasso di abbandono scolastico, hanno creato una situazione ingestibile (e non sappiamo chi deve porre rimedio). In Italia mancano ingegneri, architetti e matematici, però abbiamo un sacco di psicologi (forse ne abbiamo tanto bisogno!) 

Quali soluzioni ci sono di fronte ad una catastrofe sociale economica e individuale di queste dimensioni? La sedimentazione decennale di problemi, di arroccamenti ideologici e di bugie elettoralistiche, ci pone davanti ad un quesito davvero complesso, forse il più difficile. Non è una questione da risolvere con un veloce decreto legge, né di dargli un gran nome pomposo, e neanche di promettere cose a vuoto.

Innanzitutto bisognerebbe iniziare a vedere l’impresa come una risorsa, anche didattica. Ad esempio l’apprendistato potrebbe essere capovolto: vanno date all’impresa risorse per insegnare ai ragazzi e non essere invece additati come sfruttatori di minori. Mettiamo una piccola ditta di idraulica: potrebbe avere due ragazzi da formare con assicurazione e piccolo rimborso spese a carico dello Stato per un anno. Se poi il ragazzo dimostra interesse potrebbe fare gli altri due anni con costo minimo a carico dell’azienda e qualche ora settimanale di cultura generale in una scuola pubblica. Finiti i tre anni avremmo un idraulico formato, che magari sa anche qualcosa di ragioneria, che potrebbe essere assunto a tempo indeterminato dalla stessa azienda o aprire una propria piccola attività. Così si potrebbe fare per una miriade di attività e di mestieri, compresi gli addetti all’agricoltura, che ai più giovani appare solo come faticosa e inappagante.  

Per quanto riguarda i servizi essenziali, vedi ospedali, sicurezza e trasporti, bisognerebbe invertire la rotta attuale, quella cioè di bloccare al più presto la regionalizzazione dei servizi. Non dà omogeneità di trattamento fra i cittadini italiani e impedisce di fatto un’organizzazione più ampia, anche in funzione di una visione europeista.  Il fisco regionale sarebbe la fine dello Stato italiano e dell’unione europea, che invece dovrebbe tendere ad uniformare le tassazioni dei vari Paesi. Alla fine avremmo medici bravi solo al Nord (perché pagati meglio) e trasporti efficienti solo in Lombardia.

Dovremmo poi cambiare visione del rapporto con i Paesi stranieri, che se ben vissuto, può essere foriero di nuovi scambi e nuovi insegnamenti. La chiusura attuale delle nostre frontiere impedisce ogni forma di sviluppo e blocca la capacità di movimento che invece nel Mediterraneo dovrebbe essere la nostra principale propensione. In un momento di grave denatalità, bloccare inoltre i flussi migratori, significa condannarsi all’emarginazione economica con una società sempre più vecchia e sempre meno produttiva.

Non mi sembra che i governi degli ultimi trent’anni siano andati in queste direzioni, piuttosto si sono indirizzati verso facili soluzioni di facciata, senza mai toccare le questioni dirompenti di un sistema malandato e corrotto. L’ultimo governo poi è un coacervo di contraddizioni tali da apparire improbabile a qualsiasi osservatore esterno. 

Lo sviluppo che crea lavoro è uno stato d’animo, ci deve essere un ottimismo di fondo che sembra sparito da decenni nelle famiglie italiane. Le imprese sembrano vittime del sistema e non hanno più voglia di investire: infatti o chiudono o vendono. I giovani hanno una visione negativa, è complicato trovare una casa, un lavoro decente, una banca, uno strumento semplice, una vita normale  con figli e momenti di relax. Allora meglio un lavoro provvisorio, senza impegno, senza alcuna visione se non quella del giorno per giorno. Il dramma del lavoro è tante cose, quasi tutte ignorate da politici furbetti, pronti a lanciarsi sull’ultima notizia di cronaca per qualche voto in più.

39° parallelo - agosto 2019

Alfredo De Giuseppe

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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