2022-01-19 "Il Calcio e la Chiesa" - FB

  

Con l’arrivo del settimo, meglio con la fine del sesto decennio del ventesimo secolo, per l’esattezza nel marzo del 1970, la piazzetta della Chiesa subì una piccola ristrutturazione. I tre scalini rimasero intatti, ma tutto lo spazio antistante la Chiesa fu asfaltato e fu quindi possibile giocare a calcio con maggiore precisione. Io avevo dodici anni, fino ad allora avevo trascorso molto tempo a palleggiare da solo e competere con un muro bianco del mio cortile su cui avevo disegnato una piccola porta. Ancora non lo sapevo ma molti allenatori di serie A consigliavano il muro come un importante esercizio per migliorare precisione, calibratura e potenza del passaggio. Io di mio aggiungevo una specie di radiocronaca sibilata fra e me e me, per ore e ore, fino a stancare mortalmente mia nonna e mia zia che, dentro lo stesso cortile, mi osservavano con un gomitolo di qualcosa fra le mani: Suarez lancia per Jair che crossa per Mazzola che arriva e mette in rete. Segnava sempre Mazzola nella mia cronaca calcistica, la partita finiva con Sandrino Mazzola in trionfo, mentre Niccolò Carosio raccontava di avversari che si inchinavano di fronte a cotanta classe. Tanto fu Mazzola che io in breve divenni Mazzolino, e con quel nome affrontavo le partite sul sagrato della Chiesa. Si mettevano due pietre per costruire la porta e si cominciava. Il campo era molto piccolo, il pallone di plastica leggera, che noi chiamavamo di vibra, da non confondere con il pregiato pallone di cuoio. Non potevi sbagliare un controllo altrimenti il gioco non era più tuo. Le azioni consistevano per lo più nel lancio del portiere, stop e tiro oppure da lunghi dribbling in una selva di gambe. I passaggi fra compagni erano una cosa rara.

Spesso arrivava il prete con la tonaca, don Gino, che fermava il gioco, si prendeva il pallone: questo lo tengo io, vi ho detto mille volte che qui non si gioca, dovete andare altrove, ditelo ai vostri genitori. Il pallone non riappariva più, il gioco era finito. Per questo motivo passavamo molto tempo ad osservare se stesse per arrivare lo sterminatore dei palloni, c’erano gli scherzi tipo: scappa, sta arrivando don Gino, oppure la squadra che vinceva diceva ho visto l’ombra di don Gino, pur di interrompere la partita e dire di aver conseguito una vittoria certa. Sapevamo quando il buon prelato faceva la pennichella pomeridiana,  a che ora c’era la funzione e quando stava per suonare le campane. Venivamo sorpresi per lo più quando moriva qualcuno di pomeriggio: don Gino veniva in chiesa per scampanellare a morto e ci beccava nel bel mezzo dell’ultima rivincita, quella della vittoria finale. A quel punto la domanda chi è morto? veniva, per importanza, abbondantemente dietro alla brusca, quasi violenta interruzione della partita. Quel continuo sequestro di palloni, mi faceva riflettere sulla Chiesa e i suoi sacerdoti. Mi chiedevo: ma non ha detto Gesù Cristo lasciate che i ragazzi vengano a me? Non è compito di un buon cattolico parlare, scherzare e giocare con i ragazzi? Credere nella vita ultraterrena era sempre così pesante, in ogni fase della vita? Intanto dovevamo comprare tanti palloni, per fortuna mio padre amava il calcio, era contento che io avessi quella sfrenata passione, anche se lui era juventino ed io ero stato ammaliato dall’Inter di Herrera. Posi le mie domande a scuola all’insegnante di religione, a sua volta un prete, che prima si mise a ridere, poi mi spiegò che essere cattolico significa anche rispettare le regole e giocare per strada era fuorilegge. Quindi, pensai, la Chiesa sta con la Polizia, qui dobbiamo stare ancora più allerta, c’è pericolo che il pallone sequestrato diventi prova inconfutabile di un grave reato. Il mio rapporto con la Chiesa era definitivamente turbato dal dubbio che la prassi e la teoria non collimassero nella religione, che non dava importanza alla felicità dei ragazzi, che in effetti tutta la Chiesa fosse collusa con il Potere. Fu per questi pensieri, condivisi con alcuni amici, che trasferimmo le partite di calcio nello spiazzo del Castello, il cui feudatario non c’era più, fra i vicini non c’era né un prete né una suora e neanche un carabiniere: tutte le discussioni avvenivano fra pari. Le partite del castello erano più complete, c’era più spazio e si giocava anche con un certo senso tattico con difesa e attacco. Il centrocampo è un concetto che imparai nel vero campo di calcio, intendo quello con il cerchio, le bandierine e le porte in legno.

Molti anni dopo, approfittando di certi lavori di ristrutturazione, entrai nella sacrestia della chiesa. C’era una porta fra la scala del campanile e il lavabo, doveva essere una specie di magazzino: da apprendista chierichetto avevo frequentato il retro dell’altare centrale, ma quella porta non l’avevo mai aperta, né ricordo mai altri che l’avessero aperta. Nelle sacrestie si fanno sempre gli stessi gesti, si dicono sempre le stesse cose, da secoli: è il segreto del loro successo. Aprii la piccola e gracchiante porta di legno, c’erano attrezzi vari, candele e candelabri laccati color oro. Nell’angolo, ormai coperti da polvere nera, intravidi i palloni, i miei palloni. Erano quasi tutti afflosciati, però stranamente alcuni erano ancora gonfi, ne presi uno in mano e mi venne spontaneo palleggiare, destro, sinistro, coscia, destro, sinistro, testa. Mi sporcai capelli, scarpe e pantaloni. Richiusi la porta, non rivelai a nessuno la scoperta e non seppi più niente dei palloni, forse sono ancora lì, diventeranno reperto archeologico, oggetto di studio e curiosità dei numerosi turisti che verranno alla ricerca degli usi e costumi dei ragazzi degli anni ’70, quelli dei palloni di vibra.

FB 19.01.2022     

Alfredo De Giuseppe

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