2024-02-09 "il razzismo e la felicità del calcio"

Il calcio è un gioco delle masse, per le masse. È una lotta ingentilita da alcune regole, ma pur sempre una battaglia. Il calcio non è come il tennis, l’atletica leggera o come la pallavolo dove non esiste il contatto fisico, è un gioco che serve a simulare la vittoria ancestrale di una tribù su un’altra. Lo stadio è un nuovo Colosseo dove si va per vedere del sangue, per vedere vincere e morire, possibilmente tifando per qualcuno o semplicemente per compiacere l’imperatore. Il calcio come il rugby, come l’hockey su ghiaccio è basato sul contatto fisico, sulla velocità, sulla bravura  e infine anche sul genio. L’orgasmo della vittoria provoca in altri la sete di vendetta, oppure lunghi periodi di frustrazione e in definitiva la violenza gratuita. A volte solo verbale, in altri casi anche fisica.

Ho giocato per molti anni su campi in terra battuta e in categorie infime e ho vissuto sempre con estremo disagio le modalità di approccio a questa cosa definita sport (ne ero e ne sono coinvolto, nonostante tutto, per abitudine , forse, o perché da bambino era l’unica cosa che sapevo fare alla grande). La base dominante dei rapporti era la reciproca dimostrazione di forza, che in effetti nello stadio casalingo veniva rinvigorita dalle grida amiche. All’inizio del calcio moderno erano grida isolate, violente, volgari e preconcette contro arbitro e avversari, tese a soggiogare il nemico, poi man mano son divenute sempre più organizzate e sempre più minacciose. Un tifo a mo’ di falangi romane, dove ognuno copre l’altro, dove vige il rapporto di amicizia e di omertà, perché tutto si può perdere, anche la partita, tranne la dignità della propria compattezza.

Il tifo delle squadre di serie A è guidato per lo più da uomini appartenenti a organizzazioni che si ispirano a simboli storici di violenza (senza conoscere quasi nulla della Storia). Spesso i giovani ultras sono vittime di un sentimento di odio verso l’avversario, ma anche verso tutti gli altri, siano essi poliziotti, dirigenti o calciatori. Per non farli andare oltre ad ogni partita è come se si fosse silenziosamente deciso di concedere loro un pezzo della nostra società, lo spazio dello stadio per intero, come sfogatoio di ogni frustrazione, come luogo dell’esasperazione collettiva. Solo all’interno di uno campo di calcio (se non c’è la TV ancora di più) è possibile assistere a scene improponibili in altri ambiti, solo in quel luogo chiuso, in quel colosseo ancestrale, ognuno è libero di imprecare, offendere e amare oltre ogni limite. Si può fischiare un morto, imprecare contro la mamma del presidente, lanciare oggetti contro le forze dell’ordine: tutto è possibile, purché emerga questa totale indifferenza verso le regole esterne, verso l’autorità, verso tutto ciò che non sia strettamente legato al loro circolo.

Quando qualche giornalista ha tentato di capire dal di dentro le organizzazioni delle tifoserie, ha visto scorrere un fiume di denaro, di droga e di malaffare (spesso nel complice silenzio delle società di calcio). Il capo ultras della Lazio, Fabrizio Piscitelli, si faceva chiamare Diabolik e solo dopo essere stato ucciso nel 2019 in stile mafioso, si è scoperto che era legato alla camorra e alla ‘ndrangheta, che guadagnava oltre centomila euro al mese, che i tifosi lo rispettavano come un imperatore, che le forze di polizia lo tolleravano come un male necessario. Lo storico capo ultras dell’Inter, Vittorio Boiocchi, è stato ucciso nel 2022, probabilmente nell’ambito di un regolamento di conti perché lo stesso, pur avendo molti precedenti e condanne definitive per rapina, traffico di droga e sequestro di persona, continuava le sue attività criminali nascosto tra i mille club della tifoseria organizzata. Non di meno le problematiche legate ad altre squadre di primaria importanza, vedi il coinvolgimento della dirigenza Juve con un gruppo di criminali che gestiva biglietti e trasferte dei tifosi. Di tanto in tanto emergono scandali di una certa gravità nella Roma, nel Milan, nel Bari, nel Napoli e, forse, in tutte le altre. Le società, spesso vittime a loro volta, hanno perso il controllo del giocattolo. I calciatori, dopo una sconfitta, vanno sotto la curva a chiedere scusa con la testa china, in alcuni casi sono stati minacciati di morte se non salutano le frange del tifo più oltranzista.

Quel che preme qui è far intravedere il brodo in cui nasce e si cuoce l’intolleranza, la violenza e il razzismo nel mondo del calcio. L’ultimo episodio che ha coinvolto il portiere del Milan, Mike Maignan, non è che un esempio infinitesimale di ciò che accade settimanalmente nei campi di calcio. Maignan, di nazionalità francese, nato in Guyana da padre francese di origini guineane e madre haitiana, ha la colpa di essere un po’ scuro di pelle e soprattutto di non accettare impunemente ciò che gli viene detto a gran voce alle spalle della sua porta. All’ennesimo ululato da scimmia e alle grida di “negro di merda”, ha deciso durante la partita contro l’Udinese del 20 gennaio 2024, di togliersi i guanti e abbandonare il campo. I suoi compagni l’hanno seguito, la partita è stata sospesa per cinque minuti, poi tutto è ripreso come sempre. I commentatori TV fanno finta che sia un caso isolato, che i responsabili vengano espulsi per sempre, che purtroppo si tratta di pochi imbecilli che rovinano il gioco più bello del mondo, che bastano due telecamere in più e tutto si aggiusterà. Non vanno mai a fondo del problema, sicuramente per conservare la pagnotta e non vedersi rovinata la carriera. Perché la verità è più profonda: in quel luogo chiamato stadio si dà sfogo ai pensieri più reconditi dell’italiano medio, quelli che non si possono dire apertamente, quelli per i quali i negri sono scimmie inferiori, gli ebrei son buoni per farci saponette e i sudamericani sono sporchi e cattivi. Mediamente questo è un uomo (e forse anche donna) che si sente moderno, perché sa usare bene il cellulare o qualsiasi altra cosa che gli è stata data per divertirsi, che vive sull’orlo del negazionismo su ogni fatto storico e scientifico e che ha ormai un solo dio: il successo economico condito dall’ignoranza.

Qualche giorno dopo, il 29 gennaio, il sindaco di Udine ha tentato di chiedere scusa a Maignan, proponendo in Consiglio Comunale la concessione della cittadinanza onoraria al portiere francese, anche per prendere le distanze tra i cittadini comuni di una città e i tifosi razzisti di un club. Ebbene, la minoranza di centrodestra si è fermamente opposta, bocciando di fatto la proposta (serve il 75% dei voti per tali onorificenze).

Non nego che nel calcio ci siano anche una forte componente adrenalinica positiva, momenti di aggregazione e addirittura di commozione, paradigmi socio-culturali dell’umanità. Tutte cose già studiate, scritte e analizzate in ogni didascalica espressione.

Tuttavia, se proprio devo cercare un modello di calcio felice, lo trovo nel campetto sotto casa, nella piazza del paese, con le porte formate da due pietre, con le squadre improvvisate e cangianti, senza arbitro e senza le magliette del tuo calciatore preferito, che rimaneva un miraggio, un campione cui ispirarsi, mai un’icona propagandistica. Il pallone a volte pesante a volte leggero, spesso sequestrato dal vicino di casa. Il calcio innocente dei bambini, la partita che finiva con una trentina di goal, che iniziava al pomeriggio e finiva al tramonto. Un calcio senza malattia, senza studi antropologici, senza soldi e razzismo. La felicità del calcio.

FB - 9 febbraio 2024

Alfredo De Giuseppe

Stampa