025 - Il calcio come metafora, anche giocando in difesa - 2017-11-25
Certo il calcio non dà buon esempio, prima di tutto a sé stesso e poi alla massa di giovani che in linea teorica vorrebbe educare. Non tanto per una sconfitta sul campo di gioco quanto per tutto quello che succede fuori, prima di ogni partita, durante le scelte strategiche, dopo ogni scandalo, dopo ogni singolo contratto. Il calcio ha assunto negli ultimi anni dimensioni spaventose in termini di interessi economici, televisivi, pubblicitari. Tanto importanti, tanto nevralgici da essersi infiltrata la mafia, come in quasi tutte le cose importanti di questo momento, dall’immigrazione, alla politica, alla finanza. C’è una regola non scritta che oggi mi pare incontrovertibile: dove c’è tanto denaro, c’è puzza di malaffare. Procuratori miliardari che decidono le sorti di un campionato, presidenti sconosciuti come quello che avrebbe comprato il Milan, calciatori modesti scambiati per decine di milioni al solo fine di oliare tutti gli ingranaggi, le televisioni onnipresenti, i commentatori finti ingenui, la Lega calcio governata secondo i riti di una cosca, la finzione del duello gladiatorio riportatoci come metafora della vita. In effetti il calcio dimostra cosa conta di più in questa società: la ricchezza acquisita quasi per caso, quasi senza sforzo, solo perché inserito nel meccanismo giusto al momento giusto. Ventura, il commissario tecnico, non si dimette: se ne va solo dopo lauta buonuscita. Il presidente Tavecchio può lasciare la Federcalcio solo se si trova un nuovo personaggio che garantisca la spartizione della torta, secondo indicibili accordi fra i suoi impresentabili padroni. Poi perdiamo una partita e ci fanno pesare l’eliminazione dai prossimi mondiali come una colpa collettiva, come un irreparabile danno alla nostra immagine, alla nostra economia.
Ci sarebbe da prospettare la fuga nel calcio dilettantistico, ma non sempre è così. Pochi anni fa il Procuratore Cataldo Motta disse: attenzione, nel calcio dei nostri paesi si nascondono spesso elementi malavitosi in cerca di un riconoscimento sociale e pubblico, difficile da ottenere in altro modo. Un riconoscimento che avalli le posizioni e gli atteggiamenti negativi dei piccoli boss, pronti a copiare le mosse dei grandi. E se non c’è malaffare, c’è un malcelato interesse politico che conta di far breccia su giovani ingenui, inesperti e manovrabili. Niente di nuovo: dopo lo spontaneismo dei primi decenni del novecento, il calcio, dagli anni ‘60 in poi, è stato sempre gestito come veicolo di visibilità e quindi di consenso politico. Del resto non va dimenticato che anche nelle ultime amministrative di Tricase c’è stata una lista di soli calciatori e dirigenti o loro parenti. In questi ultimi anni abbiamo visto presidenti pronti al sacrificio con un dichiarato scopo elettorale, una comunità sempre più distante dalle dinamiche contorte dello sport e soprattutto una totale assenza di programmazione. Anche in quel campo c’è poca voglia della lenta costruzione, non c’è pazienza intorno ai giovani, non c’è il piacere di una visione collettiva.
Se il calcio, con i suoi riti, i suoi duelli e i suoi entusiasmi, è metafora della vita, bisogna allora conoscere, attrezzarsi e difendersi. Alcuni ragazzi di Tricase, alcuni over 50, stanno portando avanti da anni un sentimento chiamato calcio popolare. Uno schema fatto di rifiuto della violenza sugli spalti, di una pulizia comportamentale di società e calciatori, di un tifo organizzato per i propri colori, per una competizione sana e divertente, ma che significa anche aggregazione, ritrovo, amicizia. C’è da aggrapparsi ai tanti gruppi presenti nei paesini d’Italia, quelli dei campi brutti e sporchi, quelli che lavorano tutta la settimana oppure non lavorano tutta la settimana, quelli che vedono il calcio televisivo come arrogante e pretenzioso. Perché nella vita non sempre è importante vincere, ma fare la cosa giusta.
La mia colonna - il Volantino, 25 novembre 2017
Alfredo De Giuseppe