054 - La rivoluzione in un negozio - 2018-09-15

Parlando di negozi… All’inizio del 1978, esattamente quarant’anni fa a Tricase, un gruppo di ragazzi rilevava un negozio di dischi e iniziava un’avventura imprenditoriale, di cui non conoscevano né limiti né potenzialità. Del resto non c’era molto da vedere e imparare in paese. C’erano tre o quattro bar, usati per lo più per giocare a carte e a biliardo, pochissimi ristoranti e una sola pizzeria. Pochi e tristi negozi di abbigliamento e una sola boutique dal nome francese. Le licenze erano bloccate: la commissione comunale che le rilasciava era in mano a vecchi commercianti, ricchi e tirchi, per lo più timorosi di perdere il loro mercato. Liberalizzazione era una parola che non si usava. La Dc prendeva il 75% dei voti, era il partito della famiglia, della conservazione e dello sviluppo. Se stavi nei ranghi, qualcosa vincevi sempre. Come quei tecnici che, intruppati nelle fila della politica per mero interesse personale, stavano già allora provando a devastare il territorio. C’era la corsa al posto fisso, statale possibilmente, che in generale significava lavorare poco e permettersi molto, quasi tutto, case, auto e ferie comprese. Una massa di impiegati che, liberata dalla schiavitù contadina, andava al mare, in montagna, apriva il circolo tennis e aspettava con ansia la TV a colori. E forse poteva comprare i dischi dei nuovi cantautori.

Operazione temeraria e irta di difficoltà si rivelò invece avere un negozio di soli dischi nella Tricase degli anni settanta. Allora si trovò il modo di sopravvivere con la registrazione su nastro (cassette stereo 8 comprese) di una sorta di compilation delle migliori canzoni del momento, scelte a piacere da improbabili latin-lover che speravano di far colpo con le canzoni più belle e romantiche, dai Collage a Umberto Tozzi. Qualsiasi persona di buon senso avrebbe dovuto chiudere al più presto e seguire l’onda: andare a studiare in una città del Nord, tornare laureato, farsi la casa accanto a quella dei genitori, guadagnare in silenzio e farsi i fatti propri. Era l’esatto contrario dei motivi che ci avevano spinto a rilevare quel negozio: noi volevamo affermare il principio della libertà di scelta, non amavamo l’assistenzialismo del sud, non ci piaceva il clientelismo sfrenato e il familismo invadente, non ci piaceva l’ipocrisia dominante e neanche la costrizione di lasciare il nostro mondo. In fondo eravamo pasoliniani fino al midollo e fino all’incoscienza. Sentivamo l’urgenza di non abbandonare il paese a sé stesso, dovevamo rimanere per fare, per destrutturare una società chiusa e per vivere felici la terra degli affetti e delle sperimentazioni.

Insomma quello che oggi appare la banale apertura di un negozio, in quel momento era un gesto rivoluzionario, perché per la prima volta compiuto da più ragazzi, senza soldi e senza paracadute. Non il singolo commerciante, figlio di commercianti pronti a battezzare milioni e miliardi, ma un gruppo di persone che decideva di scompaginare usi e costumi. Al di là delle prospettive personali, di quelle che potevano essere le ricadute economiche, quel che contava era mostrare a tutti che un altro mondo era possibile. Era l’inizio del 1978, poi arrivò il rapimento di Moro, la sua uccisione, la fine dell’innocenza politica. Morì Paolo VI, arrivò Papa Luciani e subito dopo Wojtyla. Un anno importante, mentre alcuni ragazzi tentavano di dare sostanza ad una forma di paese diverso, più aperto, più attento alle proprie bellezze, più pronto alle sfide di una nuova cultura. Vedemmo i primi marocchini spingere un carretto pieno di tappeti, Vasco Rossi pubblicare il suo primo album e la politica marciare compatta verso il disastro degli anni ’80.

Non è il caso, al momento, di analizzare costi e benefici di una tale scelta, né di abbandonarsi a retoriche e nostalgiche rimembranze, quel che conta è quel che resta. E restano alcune cose da segnalare: i ragazzi si sono immunizzati da quell’amore profondo verso il loro paese. Oggi si gira il mondo per lavorare, la propria casa non è il sole che illumina l’universo circostante. La politica, perso il faro democristiano, non riesce a fare comunità, è ridotta a lotta fra burocrazie e dichiarazioni demagogiche. Tricase ha decine di bar, ristoranti, assicurazioni e negozi, alcuni dei quali figli e nipoti di quel primo nucleo giovanile. E altre cose della modernità, inserite nel mondo globalizzato, dove anche il concetto di multinazionale è superato. Quel che resta è la difficoltà di fare impresa libera, di unirsi per fare scelte condivise, per inventare un nuovo modello, per provare a cambiare di nuovo. Quel che resta è un negozio che ancora, in un angolo, vende CD. E un figlio che guarda ispirato i vecchi dischi, mi fa ascoltare Calcutta, ma ama anche Paolo Conte, Rino Gaetano e Pierangelo Bertoli (eppure il vento soffia ancora).

La mia colonna - il Volantino, 15 settembre 2018

Alfredo De Giuseppe

 

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