140 - Il calcio sulla moquette - 2020-10-03

Si sta discutendo in questi giorni se, come e quando riaprire gli stadi al pubblico. Si è deciso di far accedere sugli spalti non più di mille persone, dopo un incontro tra i ministri Boccia, Speranza, Spadafora e le Regioni (che, come al solito, stavano andando ognuna per proprio conto). È stato finora bloccata, rinviandola a metà ottobre, la decisione di far entrare un numero di spettatori pari al 25% della capienza dello stadio.

In effetti parliamo di calcio, quel gioco che si fa con un pallone gonfio d’aria, dentro un rettangolo lungo circa 100 metri e largo 60, che fin dai primi anni del Novecento ha conquistato masse di appassionati, divenuti prima tifosi, poi fans e infine ultras. Negli anni, molti antropologi si sono interessati a questo fenomeno, intravedendo in esso tutti i requisiti di una battaglia tribale, di una lotta collettiva, dove si esalta l’individuo più dotato dentro un recinto visibile e predestinato (e quindi una specie di zona franca) dove sfogare le frustrazioni  della società moderna. Insoddisfazioni e rabbie sia collettive che personali, soprattutto delle masse più povere e più emarginate.

Però bisogna aggiornare un po’ di informazioni. Il calcio è un altro sport rispetto a  quello del Novecento, altre regole, altre filosofie, altre dinamiche finanziarie. Ora le società son quasi tutte delle SpA, guidate da manager invisibili che fanno capo a gruppi finanziari (quasi sempre cinesi e statunitensi) dalla dubbia provenienza. Ora il campo da gioco sembra una moquette industriale, dove il pallone non fa mai un rimbalzo imperfetto, che è diventato meno pesante e più colorato. Le ali destre e sinistre, e la loro pittoresca fantasia, non esistono più perché si chiamano esterni e vanno su e giù come dei forsennati, mentre l’arbitro è il terminale di una decina di collaboratori, aiutati da una tecnologia che permette di intravedere in tempo reale delle sfumature millimetriche. I calciatori, quasi tutti, non accennano più una finta o un dribbling, ma solo resistenza e velocità: butti il pallone avanti, se sei più veloce dell’avversario fai il cross, altrimenti torni indietro e ricominci una cantilena di passaggi infiniti. In compenso i calciatori son quasi tutti belli come fotomodelli, che se metti in fila  tutti i loro tatuaggi  fai un percorso più lungo dello stadio stesso. Le regole sono talmente cambiate dal renderlo davvero uno sport diverso, talmente diverso che è sbagliato anche fare paragoni col passato, con i campioni di cinquanta o sessanta anni fa, con le società del passato.

È uno spettacolo televisivo con tutti i suoi tipici cliché. Dello sport improvvisato che si faceva per strada non è rimasto nulla. Ora è un set cinematografico, ben confezionato e ben condito, dove la sceneggiatura è tutta scritta, compreso il risultato finale, tranne poche eccezioni che fanno solo aumentare l’audience. Nello spettacolo televisivo non c’è bisogno di un pubblico numeroso. Bastano anche mille invitati, poi si possono inserire gli applausi registrati e il giochino è fatto. Ricordo che oggi gli introiti da stadio rappresentano per le società di calcio appena il 15% del loro fatturato. Tutto il resto è dato da diritti televisivi, sponsor e banche.

Queste banalità mi son venute in mente venendo casualmente in contatto con un blog che racconta le gesta calcistiche fino agli anni ’80, in cui ho trovato questa storia:

Brasile, 19 gennaio 1964, si gioca la semifinale della Taça Brasil,  Santos – Grêmio. Pelé, il più famoso calciatore del suo tempo, gioca naturalmente col Santos, segna tre gol ma non sono sufficienti, il Grêmio pareggia. Pepe riporta in vantaggio il Santos, ma il Gremio attacca e ottiene un rigore al 40” del secondo tempo. Gilmar, il portiere, non ci sta, protesta violentemente con l’arbitro: viene espulso. Era un altro sport con le regole quasi tutte diverse: non sono ammesse sostituzioni. Allora era così: uno si infortunava e rimanevi in dieci. Non si può sostituire un centrocampista con il portiere di riserva, la tensione è palpabile. Siamo sul 4 a 3, va in porta il migliore di tutti, Pelé. Indossa la maglia nera, a maniche lunghe di Gilmar e si piazza sulla linea di porta. Incredibilmente Pelé vola come una pantera e blocca il tiro del centravanti avversario. Ma ci sono ancora cinque minuti da giocare. Il Grêmio in superiorità numerica tenta il tutto per tutto: Pelé fa due altre parate strepitose, il risultato non cambia più. Pelé giustamente viene portato in trionfo dai compagni, il pubblico applaude per dieci minuti di fila. E son oltre centomila spettatori, ma non c’è la TV. Il lunedì successivo quasi tutti i giornali brasiliani pubblicarono la foto di Pelé che para un gran tiro del Grêmio.

Non ci sono commenti nostalgici da fare, la tecnologia pervade il nostro mondo, quindi anche lo sport. Il pianeta non si fermerà per un rigore parato. Quest’episodio calcistico (e antropologico), mi ha semplicemente ricordato quando giocavamo su una piazza piena di pietre e di pericoli, quando potevi essere indifferentemente portiere e attaccante, quando le ginocchia erano eternamente sbucciate, le unghie dei piedi sanguinanti, e i genitori che bestemmiavano. Come i proletari.

Con i campi perfetti, che sembrano di morbida moquette verde, con le scarpe costruite su misura, con i palloni leggeri che rimbalzano sempre bene, e quattro tatuaggi alla moda, pure io e Arturo saremmo diventati dei campioni. Televisivi. 

La mia colonna - il Volantino, 3 ottobre 2020

Alfredo De Giuseppe

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