150 - Della foresta salentina - 2020-12-19
80.000 anni fa il Salento era coperto da una fittissima foresta delle più svariate piante della cosiddetta macchia mediterranea. Era abitato da pochi ominidi, probabilmente della specie Homo di Neanderthal, mentre l’Homo Sapiens si sarebbe diffuso circa 20.000 anni fa. I primi sopravvivevano con quel che la foresta poteva offrire, mentre i secondi iniziarono lentamente lo sfruttamento della terra attraverso primitive pratiche agricole. La macchia mediterranea con tutta la sua varietà rimaneva su gran parte del territorio mentre l’uomo cominciava a ritagliarsi degli spazi propri che oggi potremmo definire villaggi. La storia della civiltà salentina è abbastanza nota e tutti sappiamo di aver attraversato vari popoli come i Messapi (di origine egeo-anatolica), i greci e i latini, ognuno con le relative culture, città e fortificazioni.
Un po’ meno note sono le modificazioni della flora e della fauna di questo territorio. La crescente attività umana e lo sfruttamento sempre più intensivo delle terre e del legno da ardere, ha portato ad un progressivo ridimensionamento di quella primordiale foresta. Però ancora nel 1700 viaggiatori stranieri parlavano di una terra straordinariamente ricca di vegetazione. Si riferivano soprattutto alla “Foresta Belvedere” che copriva circa 7.000 ettari, da Specchia a Cutrofiano, praticamente tutta la parte centrale di quel piccolo territorio affacciato su due mari che è il Salento. Era l’ultima parte della nostra foresta primordiale, lussureggiante di querce, lecci, frassini, olmi, nonché di paludi ricche di una fauna autoctona e di tante specie migratorie.
Questo enorme bosco fu acquisito quasi per intero nel 1640 dalla famiglia Gallone, principi di Tricase e Moliterno, che lo mantenne fino al 1860. Il nuovo Stato Unitario impose ai Gallone la cessione di buona parte della foresta ai Comuni di competenza territoriale fra cui gli attuali Botrugno, San Cassiano, Maglie, Miggiano, Ruffano e Specchia. I Comuni riassegnando a privati porzioni della foresta progettarono, anche su pressione dei Gallone stessi, che su quel territorio venisse sviluppata la produzione di olio. Da quel momento si bonificarono le terre dalle piante spontanee e nacque la monocoltura intensiva dell’olivo. In ogni caso il nostro territorio, almeno dal Paleolitico, ha sempre avuto una grande quantità di alberi, quindi ossigeno e frescura, habitat per animali e nutrimento per gli uomini. E in parte anche ricchezza e organizzazione sociale.
Purtroppo a partire dal 2008, poi certificata ufficialmente nel 2013, la Xylella ha portato ad un rapido essiccamento di decine di migliaia di ulivi. Gli scienziati già anni fa giunsero alla conclusione che tutti gli Ulivi del Salento sarebbero seccati, con gravi danni per l’intero ecosistema, l’economia e il paesaggio. Oltre dieci milioni, forse dodici, di alberi secolari, belli e produttivi destinati all’eradicamento totale, con la conseguente creazione di una specie di deserto pietroso.
Contro questa triste realtà, contro ogni segnale di abbandono, di negativismo planetario, si stanno battendo un nutrito numero di persone, che hanno fondato l’Associazione “Manu manu Riforesta”. Sono dei “pazzi furiosi, dei visionari fuori dal tempo, dei fanatici della sostenibilità”: sono uomini e donne che hanno pensato di riforestare quella parte del Salento, che prima lo sviluppo economico e poi un batterio invincibile hanno portato verso un paesaggio grigio e sconsolato. Naturalmente come tutti i visionari partono in sordina, dal basso, con poche risorse e pochi tromboni intorno. In questo momento è diventato attivo un loro sito, una serie di profili social, ma soprattutto hanno cominciato ad acquisire terreni incolti e a piantumare olmi su un terreno di tre ettari. Hanno iniziato dalla zona detta “paduli” che comprende tre comuni: Ruffano, Miggiano e Montesano, dove è calcolato che al momento vi sono 300 ettari di ulivi ammalati. Nelle aree protette Padula Mancina (Montesano), Stagni Canali (Miggiano) e Bosco don Tommaso (Ruffano) si potrà a breve vedere l’interessante opera di riforestazione portata avanti da “Manu manu”. Un nome che significa tante cose: innanzitutto un elogio della lentezza, “chianu chianu” o anche “di mano in mano”, dove si percepisce un radicale cambio di prospettiva rispetto alle difficoltà del mondo attuale: non ripiantiamo solo per sostenere l’economia ma anche per sostenere l’intero pianeta, il nostro habitat, l’aria che respiriamo, la nostra storia antropologica. I Comuni di competenza, gli Enti interessati, per fortuna, stavolta non sembrano pregiudizialmente contrari a quest’iniziativa: alcuni hanno firmato dei protocolli d’intesa, altri si stanno impegnando a trovare soluzioni logistiche, altri ancora dovranno probabilmente fare i conti con nuovi vincoli e nuove ipotesi di sviluppo, sia rurale che antropomorfo in genere.
Vedendo il loro sito, ascoltando il loro entusiasmo, mi è tornato alla mente il documentario del 2014 di Wim Wenders “il sale della terra” sul fotografo brasiliano Sebastião Salgado, dove si racconta del progetto per la riforestazione di una parte della Mata Atlantica. Un video bellissimo da mostrare in tutte le scuole, dove si fa capire quanto l’impronta dell’uomo abbia distorto il naturale e fragile percorso del “sistema Terra” e quanto si possa ancora fare per recuperarlo, per renderlo più consono ai veri bisogni collettivi. Anche lui e la moglie all’inizio furono vissuti come visionari, un po’ snob, un po’ ricchi, che si potevano permettere di pensare a cose poco concrete. Poi furono gli stessi abitanti di quell’area a capire quanto importante fosse ciò che stava succedendo.
Ecco perché un’iniziativa come “Manu manu riforesta” non deve passare in silenzio, va conosciuta e sostenuta, va portata ad esempio di una nuova visione globale, va replicata ad ogni occasione. Nasce qui, vicino a noi, ad opera di persone disinteressate e volenterose, direi dei “visionari concreti”. Invece di affliggerci ogni mattina, invece di fustigarci per le nostre colpe, invece di girarci dall’altra parte, possiamo dare una mano. Manu manu arriveremo lontano.
il Volantino, 19 dicembre 2020
Alfredo De Giuseppe