Libere fenomenologie del 2023-06-01 - ...del nespolo e altre strade

Pensavo al nespolo di mia nonna l’altro giorno. Ero davanti ad uno dei pochi alberi residuali, al maturare di maggio dei suoi frutti gialli, e pensavo a quell’angolo di paradiso che era il giardino di mia nonna, che nessuno lo definiva tale. La striscia di terra era dietro la casa, coltivato in ogni centimetro, pieno di tutte quelle semine che andavano e venivano seguendo le stagioni. Io non me ne curavo, avevo sei o sette anni, ed avevo un pallone di calcio in mano. Però c’era un albero che mi incuriosiva: aveva le foglie verdi e grandi, stava in silenzio tutto l’anno, posizionato affianco ad una cisterna d’acqua o forse un pozzo affiorante. L’albero mi appariva gigante e lontano. Poi arrivava maggio, le nespole si coloravano di un color oro punteggiato di nero, io ci salivo sopra e sceglievo le più mature. Sembrava il frutto più buono del mondo, succoso e dolce. Ne mangiavo un bel numero e sputavo i suoi semi nelle quattro direzioni, sperando che almeno uno attecchisse, affinché ci fosse una continuità di quell’albero, venuto chissà come dal Giappone o forse dalla Cina. Che ci faceva un giapponese nel mio giardino? Questo mi chiedevo quando mi arrampicavo sui suoi rami e una volta scrissi un tema sull’argomento che in quarta elementare mi procurò un gran bel dieci. Parlavo della sua grandezza, di come fosse rifugio e nutrimento delle api e del fatto che benché nessuno lo curasse, lui si sforzava ogni anno di fare i suoi frutti sempre più buoni, addirittura sempre più grossi (e pure i semi passarono da due a quattro). Poi un bel giorno, in pieno boom economico, erano gli anni sessanta, fu ampliata la casa, fu abbattuto un grande albero di gelsi e ridotto il giardino a metà. Mia nonna tentò di resistere ancora qualche anno, trapiantò degli alberi di arancio e di limone, salvò l’albero di nespolo. Infine, sul finire degli anni settanta, si pensò di fare un nuovo fabbricato, di togliere la terra, fare un bel cortile di mattoni a cemento e pure l’albero finì per essere spiantato. In un solo giorno, anzi in pochi minuti, con un potente trattore, senza neanche recitare un avemaria, si affogò il pozzo con il terriccio, si eliminò per sempre il giardino fatato e il nespolo gigante. E da quel giorno è finito anche il mio rapporto felice con le nespole, che, ovviamente, non potranno mai più avere lo stesso sapore. Anche quando a Natale arrivano dalla Spagna o dal Cile o da chissà dove in perfette confezioni di plastica, tutte ordinate, tutte della stessa grandezza e attrattive al senso della vista.

Agli inizi degli anni ottanta, quando le nespole erano già finite, io e un gruppo di amici (giovanissimi) trasferimmo un negozio di dischi in una strada centralissima, vicino all’unico albergo del paese. Nei cinquanta metri che dividevano lo stop dall’albergo c’era tutta un’altra storia. C’era un barbiere che allora non si chiamava ancora parrucchiere e neanche fashion man e non aveva nessuna insegna. Ci andavamo a leggere e scherzare ogni santa mattina. Avevamo una specie di abbonamento per la barba tre volte a settimana e per i capelli quando occorreva: si pagava secondo coscienza. Ora c’è un negozio di scarpe sportive, dentro un immobile che è stato costruito abbattendo quelle vecchie stanze con le volte a stella. C’era subito dopo una macelleria, che faceva degli ottimi involtini di agnello. Il proprietario aveva anche sul marciapiede prospiciente la concessione di una pompa di benzina: spesso lo stesso macellaio disossava un maiale e metteva la miscela al nostro motorino. Ora c’è un garage per una sola auto e un self service di alimenti e bevande a base di canapa. L’albergo-ristorante-pizzeria poi era un punto di incontro di viveur di vari livelli: al suo ingresso c’era un bar con una specie di hall con dei grandi divani, dove tutte le sere trovavi il sosia di Franco Califano o di Mal dei Primitives che raccontavano delle loro gesta nazionali e internazionali. C’era anche il vetrinista professionista che aveva imparato ad addobbare le vetrine di Parigi e poi era tornato nella sua Diso, ma veniva a Tricase per esaltare la sua arte. Era l’unico albergo del paese ed era frequentato secondo lo stile dell’epoca, pochi, strani individui viaggianti. Il resto era una pizza al volo, a volte pagata, a volte no. Ora il ristorante ha chiuso, nella hall non c’è più nessuno, ci sono ancora le camere dell’albergo. Poi c’era il nostro negozio di dischi che vendeva pochi dischi e molte cassette registrate ed era luogo politico più che economico, dove nascevano idee quotidiane su come procedere, quasi sempre sbagliate. Ora c’è un negozio di accessori per telefonini.

Questa non è una riflessione nostalgica, a ben vedere, ma la sceneggiatura di un film. Si parte da un ragazzo su un albero a mangiare nespole, si passa alla fase giovanile dei negozi di provincia, ai grandi supermarket e si arriva alla modernità del franchising, del web e del self-service.

Mentre guardavo ingiallire le nespole di maggio su quell’albero stranamente ancora in vita in una strada della città, pensavo tutto questo in riferimento ad una serie di commenti, articoli, video e talk tendenti all’assioma che nei nostri paesi tutto sia immobile, niente è cambiato, tutto è fermo al secolo scorso. Non è vero, tutto si è evoluto, tutto è diverso, il colore delle strade e pure il taglio dei capelli. Voglio solo esimermi qui ed ora a rivelare la fine del film, se era meglio o peggio, se eravamo più poveri o più ricchi, se eravamo più uguali o più diversi. C’eravamo tanto amati, questo si.

il Volantino  n 19 – 3 giugno 2023

Alfredo De Giuseppe

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