2015-12-13 "Al tramonto dei nostri sogni", di Francesco Greco - Giornale di Puglia
Un romanzo insospettato, curioso, spiazzante: come, del resto, lo scrittore che ce lo consegna, sospeso fra più livelli e visioni esistenziali e intellettuali: impresa, marketing, poesia, cinema d'autore, narrativa.
Se ogni libro ha un suo destino, anche inconscio, “Tramonti di tramonti”, di Alfredo De Giuseppe, Manni Editore, Lecce 2015, pp. 126, euro 13 (collana “Pretesti” diretta da Anna Grazia D'Oria, copertina di Giancarlo Greco, ), il caso ha voluto che uscisse nei giorni in cui, sotto il maglio di Daesch, l'Occidente ha paura, si rinchiude in casa e in se stesso, accetta la militarizzazione della società, del territorio, e i relativi costi sociali (saltano i patti di stabilità), in cambio di una parvenza di sicurezza.
Ma se per Goethe il caso non esiste, allora la metafora della storia d'amore fra un ragazzo pugliese, Luca, e Kejal (“veniva dopo quattro maschi e la festa fu grande”), una ragazza curda, sullo sfondo di un Occidente in profonda crisi di valori, smarrito, senza più sicurezze, disarticolato negli archetipi fondanti della sua civiltà, inaridito nelle sovrastrutture culturali, spirituali, mentali, diviene una provocazione dialettica ricca di mille innervature semantiche che scorrono qua e là fra le pagine.
E pare indicare nella tolleranza, il rispetto per l'altro, la comprensione, il confronto dialettico senza pregiudizi con la sua storia, identità, vissuto, quotidianità l'ipotetica via per una coesistenza il meno ispida possibile.
E dunque, un romanzo sul tramonto (“così fugace da perderlo in continuazione”), sui tramonti, sull'apocalisse, la fine, il prosciugamento ideale che ha retto la storia dell'Occidente e dell'Europa dalla trasfusione dei topoi della cultura ellenistica al Novecento dei pixel (non a caso De Giuseppe cita Oswald Spengler, “Il tramonto dell'Occidente”) col suo refrain: “L'ottimismo è viltà”.
Tramonti che ognuno spiega a modo suo: con fatalismo e rassegnazione, attribuendo agli altri i propri fantasmi, mostri, vigliaccherie, supposte anarchie (“le società che funzionano si reggono su ordini gerarchici ben precisi”).
La struttura del romanzo – capitoletti rapidi e sapidi – ha la forza essenziale, estetica dell'espressionismo, l'efficacia cromatica del cinema neorealista. I crepuscoli scorrono sotto i nostri occhi come diapositive incalzanti: tramontano illusioni, sogni, utopie, speranze, visioni del mondo e della realtà, format economici e culturali.
E tuttavia, Luca e Kejal continuano a raccontarsi e a costruire ipotesi di futuro. E' quasi una provocazione, ma anche un ingenuo espediente per non soccombere al perfido nichilismo che pure sarebbe un atteggiamento estetico e razionale.
Luca ha studiato comunicazione ma ha finito col fare i formaggi, come il nonno: un ritorno alle radici a fronte della cristallizzazione della piramide sociale che esclude i migliori per dare tutto ai garantiti, ai servi della politica politicata, con i partiti ridotti a comitati d'affari, a lobby asservite da chi ha davvero il potere: il capitalismo delle famiglie, le banche, la Chiesa, i poteri forti e occulti. Anche questa rigidità escludente, che finito con l'asfissiare la società, provoca la necrosi culturale in cui siamo avvolti, la febbre che ci consuma dopo aver dissipato tutti i valori dei padri (dalla Resistenza al solidarismo socializzante del mondo contadino).
Luca e Kejal forse non lo sanno, ma lavorano a un rinnovamento interiore dell'uomo, a una rinascita dell'umanità: come la fenice che magicamente ricompone le sue ceneri: la tenerezza di un sentimento, la disponibilità a capire l'altro, a condividerne gioie e tristezze, può smussare le diversità e ipotizzare un mondo se non pacificato, almeno meno crudele e violento dove ognuno darà a seconda delle sue possibilità e avrà per i suoi bisogni.
E' il messaggio carsico, subliminale di questo romanzo messo giù con la sapienza del cuore da un vero scrittore fra i tanti che usurpano tale titolo, che si legge con commozione e partecipazione dei sensi, e che riesce a convincerci, pur nel nostro cinismo indotto, che prima o poi le parole saranno restituite al loro senso primitivo, pacificando finalmente l'uomo con se stesso, l'altro, l'Universo.
Giornale di Puglia - 13 Dicembre 2015
Francesco Greco