Puccetto (2008)
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Minuto d'Arco editore - 2008
Puccetto non ama definirsi un pittore e neanche un artista. Non vuole sentire paragoni, non conosce le scuole pittoriche degli ultimi decenni, né tantomeno ha approfondito le immagini perfette del nostro Rinascimento.
Se proprio lo irriti ti dice che lui è “un semplice imbrattatore di pezze”. E questo ha una sua intrinseca verità perché ha iniziato a buttar colore, tanto colore, di qualsiasi natura, specie e consistenza, su lenzuola vecchie e strappate. Questo inizio, questa forma compulsiva dalla quale nasce tutta la sua pittura, non l’ha mai dimenticato: non riuscirebbe in nessun caso a parlare come un libro stampato di arte moderna.
Puccetto sente la pittura come poteva sentirla l’uomo delle caverne, come gli uomini che dipinsero con lo sterco dei pipistrelli nella Grotta dei Cervi. Al più la vive come una liberazione, un’evacuazione intestinale, bestiale e violenta, ma che ha non mai nulla di volgare o di abitudinario. Molti critici o semplici appassionati di pittura che gli si sono avvicinati, lo hanno immediatamente accostato a Jackson Pollock, l’inventore del dripping e simbolo dell’action painting. Ma quando Puccetto prese la prima pezza e la riempì di colore non sapeva chi fosse Pollock e non sapeva niente dell’arte moderna: lui sapeva soltanto che aveva bisogno di buttare vernice, di colorarsi un po’ la vita. Da qualche anno gli avevano trovato un lavoro, un lavoro che ancora oggi svolge con diligente continuità: il casellante di un vecchio, semiabbandonato casello ferroviario di campagna, fra due strade bianche, ancora impolverate, fra rovi ed erbacce. Aveva abbandonato gli amici del bar, quelli che l’avevano maltrattato sempre, che lo prendevano in giro a scuola e con i quali giocava a fare il pagliaccio del rione. Aveva smesso di seguire anche gli allenamenti della sua amata squadra di calcio e il lavoro, quel lavoro, seppur così necessario, era la peggiore delle trappole che potesse immaginare: stare diciotto ore, solo e intristito, ad aspettare treni vuoti, abbassando le sbarre di un casello attraversato da non più di dieci persone al giorno. E poi la somma di geni e di esperienze che lo rendeva sempre inquieto e mai pacificato, nonostante la quiete dell’ambiente circostante, nonostante un lavoro.
Siamo alla metà degli anni ottanta, quelli della Milano da bere e dell’esplosione del debito pubblico, dove tutti si concedono tutto, dove appare impossibile rimanere fuori da quella grande abbuffata. Eppure Puccetto attraversa questi venti anni, alzandosi alle quattro di ogni mattino, senza ferie e malattie, andando al lavoro con la sua vecchia bicicletta nera, non capendo completamente la rincorsa alla modernità, interrogandosi sulla sua infanzia, sul suo paese che lo rifiuta, sull’equilibrio perso e mai ritrovato. Così nasce l’imbrattatore Puccetto. Fuori dagli schemi, dalle scuole e dai circoli artistici.
Qui nasce un bisogno fisiologico, in parte animalesco, certamente intuitivo ed istintivo.
Così come Pollock si era formato nelle migliori università americane ed era giunto all’astrattismo dopo un lungo percorso classico, Puccetto era arrivato all’arte in un modo primitivo e solitario. Ecco perché lui rifiuta ogni similitudine, guarda con occhio severo ogni visitatore del casello che nomini il grande pittore americano. Non ha un maestro, non ha un riferimento, né culturale né umano, se non il suo sentire viscerale. Un sentimento del vivere che dopo qualche anno ancora non poteva essere contenuto solo nella pittura e che prendeva spazio anche su fogli imbrattati di scrittura. Ha scritto quintali di carta, lui che a scuola sapeva appena leggere e che aveva smesso con insegnanti e compagni quando aveva undici anni: la sofferenza, intima e sensibile, che andava maturando in quel fanciullo non accettava di essere condivisa se non superficialmente ed occasionalmente.
Il casello, il lavoro solitario, invece, lo portava verso la scrittura, verso la poesia. Scritti che sembrano quadri astratti la cui matrice è perfettamente simmetrica. I quadri, le cose imbrattate di vernice fino a morire di colore, dipinti con le dita che colano, in un vorticoso ciclo di linee e strappi, in una sorta di tela di ragno imperfetta, ma comunque vicina alla realtà degli incubi. La scrittura fatta di ventre con parole a volte apparentemente incoerenti e che infine lasciano un segno di bello e inappagato. Anch’essa, scrittura famelica e intuitiva, senza mai scivolare nel banale del poeta contadino, più vicino allo sradicamento figurativo di un Kooning che alle esperienze pittoriche salentine, tutte votate alla paesaggistica. Non poteva del resto subire contaminazioni, Puccetto, racchiuso nel suo io e nel suo casello. Un’arte innata ma affinata in solitudine con uno sforzo stratosferico che lo ha forgiato e un po’ stremato.
Un percorso che non lo ha portato a grandi livelli di notorietà, se non in un costante passaparola fra amici e conoscenti di tutta Italia. Questo è il primo lavoro sistematico che viene tentato sull’artista, vincendo anche alcune sue resistenze, basate su un’altalena di emozioni e negatività che spesso lo portano ai margini del pragmatismo e del pensiero illuminista.
Ora Puccetto vive in modo più consapevole la sua parabola artistica, nel silenzio del suo casello ferroviario, fra un pensionato che si ferma a chiacchierare e a fumare, un professore di sociologia che cerca di capire, un fotografo che lo brama e un regista che si è innamorato della sua faccia. L’arte è arte di vivere.
Alfredo De Giuseppe