2014-06-21 "I cinquant'anni del Tricase Calcio", in occasione della festa per il 50° anniversario
Amarlo con semplicità
Non amo particolarmente feste nostalgiche, incontri e raduni di reduci di qualsiasi genere. Ciò che è stato è difficile che torni, l’illusione di restare legati al ricordo della gioventù può avere anche effetti indesiderati. Ogni momento vive della sua vita, di quell’istante, di quell’attimo fuggente che è bene conservare in gelose stanze della memoria e non in pubbliche parate. Questa è stata la prima reazione emotiva alla proposta dei fans del Tricase che si apprestavano a preparare la festa dei 50 anni della nascita della Unione Sportiva. Poi man mano che passavano i giorni, hanno prevalso altri pensieri. Innanzitutto ho pensato alla mia infanzia vissuta con il pallone in mano, fra le piazze del paese e il campo sportivo: almeno per un giorno ogni 50 anni non è giusto rimuovere una parte così intensa della propria esistenza. Ma soprattutto non potevo non ricordare, non potevo rimuovere il ricordo di alcune persone che ci hanno lasciato, eppure intrinsecamente legate al calcio, alla nostra piccola storia.
Quando finii la fase infantile delle piazze e delle infinite partite estive (durante le quali giocavo spesso contro un muro bianco con la porta disegnata) e iniziai la trafila delle giovanili del Tricase incontrai Gigi Urso, il mio primo allenatore. Gigi, che nella vita faceva la Guardia Forestale, era l’essenza della ruvidezza mista a bontà: un omone grosso, calvo e arcigno, ma sempre giocherellone, buono, non sapeva odiare se non calcisticamente. Voleva vincere tutte le partite anche le più insignificanti partitelle d’allenamento. Alla fine della sua vita non volle essere sconfitto dalla sua malattia e se andò con qualche mese di anticipo chiedendo aiuto alla sua pistola di ordinanza. Direttamente dal medioevo del calcio venivano i primi custodi di via Matine, Vincenzo Stefanelli, Luigi Minonne e Antonio Peluso, Peluseddu per tutti, che era più di un semplice magazziniere. Studiava il calciatore, viveva di antipatie e simpatie, ma sapeva riconoscere il dono della bravura. Non sopportava i furbi: con loro era terribile, gli negava i lacci nuovi, la maglietta pulita, a modo suo cercava di correggerlo. Amava le persone educate e le difendeva dai maleducati. Per molti anni l’essenza del Tricase è stato Peluseddu e non c’era ragazzo che non lo rispettasse. Una figura storica che ricordava tutta le formazioni del calcio tricasino, anche quelle degli anni ‘30: lui aveva lasciato l’azienda di famiglia per seguire i suoi idoli, fossero di Tricase o di Lecce, per lui non c’era differenza. Affianco a Peluseddu c’era Gino Felline, il massaggiatore. Con la sua figura gracile, infermiere di Nardò trasferitosi a Tricase all’apertura dell’ospedale, correva in soccorso dei calciatori con uno stile tutto suo. Massaggiava con delicatezza, ti implorava di vincere, anche lui prendeva il premio partita. Era impietoso quando perdevamo, e giù con le bestemmie in neretino. Abbiamo tentato di sentirci fino agli ultimi dei suoi giorni. Ci manca anche Fachechi, il direttore di banca, il primo presidente, carismatico e ben introdotto, che ci faceva vincere anche quando non potevamo, tutto era buono, ripescaggi e public-relation, fra una cena al mare e una raccomandazione del Cardinale. E con lui, fra polemiche politiche (tutte interne alla DC) tutta la prima dirigenza, una succursale del Comune, dove tutto era intersecato e la società contadina viveva in simbiosi con quell’unico sport, con quel primo approccio ludico, dopo anni di guerre, sofferenze, emigrazioni e povertà. Il 1964 era per il Tricase e il Sud Salento il nuovo inizio.
In cinquant’anni di storia sono passati tanti dirigenti appassionati e tanti calciatori di qualità, impossibile ricordarli tutti, mi piacerebbe anche osannare i ragazzi che ho allenato e che all’inizio degli anni ’90 sono stati protagonisti di bei campionati fra eccellenza e interregionale. Ma ora, senza far torto a nessuno, vorrei parlare di un nostro contemporaneo, di Antonio Scarascia. Lui, magazziniere e massaggiatore, guardialinee e lavandaio, è l’erede universale del topos tricasino, il portatore sano della linea demarcata da Peluseddu e Felline, quel misto di amore profondo e capacità critica. Senza tanti discorsi, senza smancerie. Silenzioso, timido ma attento, Antonio é lì tutti i giorni, da tanti anni, prima come aiuto di Peluso e poi come suo sostituto, cercando di emularne le gesta, anche quando non è stato pagato neanche un po’, anche quando ha visto fallire tutto intorno a sé. Antonio Scarascia ha un cognome importante per il calcio tricasino, e anche se non ha mai giocato, ha bene impresso un concetto: quando si ama davvero una cosa strana come il calcio, tutto il resto non conta, neanche la sofferenza di lasciare figli piccoli a casa per sventolare una bandierina gialla lungo una linea bianca in un anonimo campo dove un pallone rimbalza in mezzo a 22 ragazzini. Io, ormai quasi estraneo e quasi obeso, da oltre dieci anni non metto più piede in un campo di calcio, neanche per guardare una partita, andrò allo stadio di Tricase, nella festa dei 50 anni, per dire ad Antonio: continua così, per la pulizia dei nostri ricordi, abbiamo bisogno di uomini come te.
presentazione festa dei 50 anni del Tricase Calcio - 21 Giugno 2014
Alfredo De Giuseppe