19 - Voti senza frontiere del 2021-06-26
La mia salentitudine
Mi è spesso insopportabile il retorico e ipocrita poetare sulla nostra terra, specie da parte di Associazioni che vivono di sussidi statali, di poeti dell’immagine prestabilita in ogni sfumatura, eppure altre volte, per lo più casuali, la poesia è l’unica lettura salvifica. In certi pomeriggi assolati, in alcuni inconsapevolmente solitari. Quel meriggiar perduto nel tempo e nello spazio, quello stato d’animo mai più ritrovato, di silenzi, libri, fumetti, calura sulla bianca calce è il tema di un momento, di questo momento. Perduto fra telefoni, streaming, televisioni, pubblicità e comunicazioni social. Meriggiare pallido e assorto presso un rovente muro d’orto, ascoltare tra i pruni e gli sterpi schiocchi di merli, frusci di serpi. Montale (voto 9) descrive meglio di me, senz’altro, lo stupore giovanile del caldo sapore estivo, fatto di torpori e abbagli.
Ma nel pomeriggio di fine giugno, al volgersi dei gradi centigradi più intensi, nel disperato tentativo di oppormi al tempo, la mia salentitudine va oltre Montale e si avvicina a casa, nella dimora di Cocumola di Vittorio Bodini (voto 9) che da dentro il suo abito elegante mi sussurra: viviamo in un incantesimo, tra palazzi di tufo, in una grande pianura,. Sulle rive del nulla mostriamo le caverne di noi stessi – qualche palmizio, un santo lordo di sangue nei tramonti, un libro lento, di pochi fatti, che rileggiamo più volte, nell’attesa che ci dia tutte assieme la vita le cose che crediamo di meritare.
D’altro canto il magliese Salvatore Toma (voto 8) nel suo costante delirio mi suggerisce che “ritorneranno le mandrie di bisonti a ricordarci i polveroni americani. All’orizzonte li avvisteremo come una enorme traumatica onda gialla. Ritorneranno gli indiani i bambini chiassosi, con gli archi finti fantasiosi. Ritorneranno le squaw a lavare i panni sulle rive dei fiumi celestiali e il cane randagio fra le tende che nessuno si sogna di scacciare.
Nella vacua questione della consapevolezza e dell’oblio, trascorro con gli usci chiusi questa prima ardente calura pomeridiana, guardo il soffitto e la pagina di un libro, di quel cercare che crea il vagabondare di un cervello domato. E arrivo fino a Cavallino all’ottocentesco dialetto di Giuseppe De Dominicis (voto 8 al poeta contestatore, scomparso a soli 36 anni) che descrive il suo “Marisciu”: Coce a mpierrnu lu sule… Sula, luntana, ammienzu alla chesura, sutta allu càutu forte, rrefucatu de lu marisciu, se vide qualche specalura scutursata pe nterra.
Di calura parla anche Carmelo Bene (voto 8) dalla sua casa di Santa Cesarea Terme dove scrive “Sono apparso alla Madonna” e tanti altri poeti salentini, anzi ogni poeta che è in noi, ne tessono lo spirito d’armonia.
Mi metto in auto, rifletto su come chiudere questo pezzo, fra gli Europei di calcio che si chiamano 2020 e si giocano nel 2021, fra un Draghi pompiere risoluto e un Mattarella sempre più vicino alla santità di papa Bergoglio. Nel mentre si susseguono faraonici progetti di sviluppo, si discute polemicamente sulla transizione ecologica, il momento poetico è già ricordo. Accendo la vecchia Ford, parte una radio locale, e dopo un secolo, insieme a Roberto Carlos (voto 8), il brasiliano che vinse anche un Sanremo con Sergio Endrigo (voto 9) intono a pieni polmoni (?) una sua canzone del 1974: La mia solitudine sei tu, La mia rabbia vera, Sei sempre tu. Ora non mi chiedere perché Se a testa bassa vado via Per ripicca senza te.
Questa saudade brasiliana è la traduzione esatta della Salentitudine, fuori dalla retorica poetica, dall’ipocrisia della politica di un solo dio, del perché siamo ancora qui a cantare le gesta di una terra spesso ingiusta con i nostri figli, del perché non siamo andati via, a testa bassa, per ripicca, per amore.
il Volantino, 26 giugno 2021
Alfredo De Giuseppe