27 - Voti senza frontiere del 2019-09-18
Ti uso ma non ti amo
I miei figli, di tanto in tanto, ricordano che ho avuto, insieme ad altri ragazzi, tutti intorno ai vent’anni, un negozio di dischi in vinile e musicassette, ancora rigidamente divise in Stereo 7 e Stereo 8 (quest’ultime erano enormi e si usavano per lo più nelle auto). Su questo, ormai flebile, ricordo mi chiedono quali cantautori ho apprezzato di più e quale penso di aver amato in solitudine, senza che altri lo sapessero. Loro non ricordano però che già dal 1976 conducevo a Radio Capo una trasmissione che era basata sui cantautori e pochi altri artisti stranieri. Il cantautorato in quel momento non era solo un fenomeno musicale, ma si intersecava molto più di oggi nella disputa politica, e spesso ne rimaneva vittima. Ben lo sa Francesco De Gregori che, agli inizi della sua carriera, fu tacciato di qualunquismo, bloccato addirittura durante i concerti perché i suoi testi non collimavano esattamente con le parole d’ordine del momento storico, la sua poetica risultava incomprensibile al pubblico di riferimento, allora si sarebbe detto “al blocco sociale di cui è portavoce”. Io in quelle trasmissioni radiofoniche cercavo di spiegare, come si faceva allora e oggi non si fa più, quale fosse il senso della canzone, se non addirittura il senso dell’intero album che spesso era un contest unico, seppur con varie sfaccettature musicali (con ulteriori rimandi ad artisti stranieri, Bob Dylan su tutti, ma anche francesi e poeti anglo-sassoni).
In quel periodo funzionava molto bene un servizio “Novità” delle case discografiche che inviavano agli operatori commerciali presenti ufficialmente sul territorio, gli album che sarebbero usciti nelle settimane a venire. Tu ascoltavi l’album e decidevi se e quanti pezzi ordinare: spesso erano delle cose invendibili, alcune volte rimanevi affascinato al primo ascolto, in altri casi (vedi Battisti) dovevi prenotare con largo anticipo per poter avere in tempo l’album in uscita. Per noi giovani entusiasti e accaniti ascoltatori l’arrivo di quel pacco con una decina di dischi era una specie di festa e dedicavamo il primo ascolto in religioso silenzio, magari nelle ore di chiusura o nei giorni festivi. Alcune case discografiche avevano addirittura il rappresentante che girava negozio per negozio e raccoglieva gli ordini. Eravamo alla fine degli anni ’70, e quel mondo, ereditato dai decenni precedenti, sembrava ancora immutabile.
Insomma, pur non volendo, diventavi un esperto, uno che ragionava della bellezza e della poesia, ma anche del mercato, dei gusti popolari e di quelli dell’élite, e quindi alla fine selezionavi la tua magica, personale, classifica. Quando mi hanno chiesto di fare una supercinquina ho sempre risposto: Paolo Conte, Lucio Dalla, Francesco De Gregori, Fabrizio De Andrè, Francesco Guccini, con l’aggiunta di Vasco Rossi (di quest’ultimo ricordo perfettamente quando arrivò nel 1978 in anteprima il suo primo album -...Ma cosa vuoi che sia una canzone...- e sembrava che davvero non potesse avere un futuro, con quella voce un po’ biascicata, con l’accento degli appennini modenesi che faceva solo simpatia). Non dico niente di originale se concedo un bel 9 collettivo a tutti loro.
In realtà ce n’era uno che non menzionavo mai, che tenevo solo per me. Era Rino Gaetano - voto 9,5 - che trasmettevo in radio ancor prima di avere il nostro commercio di dischi e cassette. I suoi dischi me li prenotavo ad un negozio di Lecce che si chiamava Supersonic e ci andavo appositamente con la 127 di mio padre. Era un ascolto profondo di questo ragazzo che cantava il sud, che aveva una voce fuori dal coro, che sembrava non volersi adeguare neanche alle mode del momento, cantautori compreso (di cui pure era amico). Io mi sentivo un po’ il suo alter-ego, un po’ anarcoide, timido e infine sorprendentemente attento ai particolari e soprattutto alle connessioni storiche e politiche, anche al di là del tempo e della retorica di sinistra. E volevo raccontare il mio sud, con lo stesso atteggiamento scanzonato, all’apparenza leggero, ma inserito profondamente dentro la realtà. Quando nel giugno del 1981 morì, avevo appena finito il militare, sentii un dolore profondo come se davvero sparisse una parte di me, non collettiva stavolta, ma proprio personale, come basato su una reciproca conoscenza fatta di risate, ironia e tocchi di genio.
Tutto questo non avrebbe senso compiuto se non ci fosse un seguito, se non tornassimo al presente. Una delle sue canzoni più note “Ma il cielo è sempre più blu” in questi ultimi anni è diventata un tormentone pubblicitario. Oltre all’utilizzo durante i comizi elettorali di moltissimi candidati di ogni ordine e grado, la sua canzone, qualche anno fa, era il sottofondo di uno spot inverosimile della banca Monte Paschi di Siena e ora è diventato la base di un messaggio sull’italianità della catena distributiva tedesca a marchio Lidl (fra l’altro sponsor della nazionale di calcio). In definitiva, quella canzone che era irriverente, arrabbiata e fuori dagli schemi (durava ben 8 minuti) è diventata la canzone del conformismo sociale, della banalità fatta quotidianità. Non so se hanno pagato a qualcuno i diritti d’autore, non so chi ci stia guadagnando, ma sono certo che Rino Gaetano oggi, da vivo, avrebbe autorizzato l’uso di quella canzone solo a scopi benefici, non certo per supportare i grandi speculatori finanziari e commerciali. Uno che scrive versi come i suoi, con nomi e cognomi, con riferimenti agli scandali più ignobili della nostra storia, non li svende a chicchessia: io cara RCA ti posso usare non amare, perché poi in definitiva …il cielo è sempre più blu.
Il fatto di cronaca che ha ispirato queste brevi riflessioni: Roger Waters, qualche settimana fa, durante un incontro pubblico in sostegno di Julian Assange, ha rivelato di aver mandato affanculo Mark Zuckerberg che chiedeva immagini e canzoni dei Pink Floyd per pubblicizzare ancora di più la sua Facebook: io ti posso usare, non amare.
il Volantino, 18 settembre 2018
Alfredo De Giuseppe