2012-06 "Basta con questo calcio" - Il Gallo

Tralascio i problemi del calcio-show-business, delle squadre quotate in borsa, delle scommesse di Stato e di quelle clandestine, del doping generalizzato, dell’abbinamento calciatore-starlette televisiva e dei professionisti mediatici e tralascio anche le botte fra le squadre amatoriali.

Vengo invece a parlare del calcio nella sua dimensione sociale, nelle pieghe della sua visione imprenditoriale. Prendiamo una società a caso, il Tricase Calcio. Da anni lo schema è sempre uguale: un uomo solo al comando, successi basati su una folle corsa al debito, fra il disinteresse generale e banali cronache giornalistiche, fino alla prevedibile resa fallimentare e all’affannosa ricerca di un nuovo imprenditore di successo, pronto a sacrificare la propria azienda e forse anche i propri beni per mantenere in vita una cosa già morta. In molti comuni del Sud la soluzione più facile è stata quella di affidare la squadra di calcio al malavitoso più in vista della città, che ha trovato un comodo sistema per darsi una rispettabilità, farsi conoscere e concludere affari con altri pregiudicati travestiti da dirigenti sportivi (non lo dico io, ma lo ha affermato con grave preoccupazione il procuratore antimafia Cataldo Motta).

A Tricase per fortuna questo non è successo, ma l’ambiente si è comunque degradato: calciatori fatti arrivare persino dal Sudamerica tanto per scimmiottare il Moratti di turno, allenatori strapagati tanto per far sentire importante anche la panchina, le squadre giovanili completamente abbandonate o affidate in gestione a terzi, i tifosi sopraffatti dagli ultras in un crescendo di maleducazione e violenza. In tutto questo si è sempre inserito il Presidente spaccone, colui che “tremare il mondo fa”, che predica una sorta di auto-compiacimento negativo, dove non c’è posto per collaborazioni, per una socializzazione del calcio, per la condivisione di un progetto. Come se lo sport dilettantistico fosse un’impresa da cui tirar fuori guadagni, come se l’impegno non debba essere relativizzato ad una sana passione sportiva (fa specie che nel momento in cui l’Italia ha perso completamente la cognizione di come si costruisca e si gestisca un’azienda, tutte le cose pubbliche, scuole, ospedali, municipi e cimiteri, siano diventate Azienda).

Puntualmente poi si inserisce la politica, il Presidente fuggitivo chiama il Sindaco, il quale, con il giusto afflato, si impegna a trovare nuove risorse delegando l’assessore allo sport e cultura, che, preso da altri impegni, delega il consigliere comunale che infine telefona affranto al segretario Rocco Maglie. Alla fine si trova un unico colpevole: l’imprenditore che non vuole cogliere questa favolosa  opportunità, sponsorizzando il debito con larghe e munifiche elargizioni.

Non sarebbe ora di dire basta a tutto questo?

Intanto si potrebbe iniziare da una piccola precisazione: le Associazioni sportive non sono un patrimonio dell’intera comunità ma degli associati e degli eventuali tifosi e quindi il Comune deve restarne fuori; è finita l’epoca dell’identificazione  di una città con la propria squadra di calcio.

E poi le società di calcio, pallavolo, basket, tennis o qualsiasi altro sport devono trovare il modo di affrontare le loro aspirazioni (spesso spropositate) nell’ambito delle loro forze, coinvolgendo più possibile dirigenti e tifosi, responsabilizzando questi ultimi sulle reali capacità finanziarie a disposizione. Infine la cosa più importante: investire tempo, pazienza e passione sui settori giovanili, sottraendoli dalle grinfie  delle scuole calcio a pagamento (o similari). Verso la metà degli anni ’80 a Tricase fu pensato e realizzato un percorso del genere e le gratificazioni furono grandi, arrivando a disputare un campionato Interregionale esclusivamente o quasi con elementi cresciuti nella stessa società. Poi arrivarono i nuovi padroni, quelli tipo “cinepanettone”, e fra l’entusiasmo generale, si cambiò registro, arrivando a spendere cifre folli per vincere un campionato di Eccellenza. La situazione odierna è figlia di quella cultura, di quel concetto di vittoria slegato dall’ambiente, di quel modello di socialità (direi berlusconiana). Sarebbe il caso di rifondare il calcio (e quindi la cultura) partendo da organizzazioni più solidali e dilettantistiche, dalla “pizza e birra” ai calciatori che non devono sentirsi dei piccoli professionisti ma degli amatori giovani, facendo capire ad alcuni facinorosi che il calcio non è tutto, ma che può essere un formidabile momento aggregativo (se poi uno su un milione arriva in serie A saremo tutti orgogliosi).

Invece di essere una festa collettiva e un gioco divertente, il calcio è diventato una malattia che si deve curare con decisione, o troncandola del tutto o trovando i medici giusti. Finché sopravvive in questo modo, è meglio starsene lontani mille miglia.

Il Gallo, Giugno 2012

Alfredo De Giuseppe*

*Alfredo De Giuseppe ha militato fin da giovanissimo nell’U.S. Tricase giocandovi dal 1974 al 1986; è stato responsabile del settore giovanile dal 1980 al 1985, ha allenato per un breve periodo anche la prima squadra nel 1983. Ha giocato a livello amatoriale fino al 2003. Ha pubblicato il libro “Il calcio e Tricase” che racconta gli anni calcistici dal 1930 al 1985.

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