2015-06-27 "Dal 1935 una dura eredità" - 'Il Volantino' e 'giornaledipuglia.it'
Nel 1981 avevo letto con interesse e curiosità “La rivolta di Tricase” di Salvatore Coppola con l’importante contributo di Gennaro Ingletti. Nel 2001 ne facevo un breve riassunto nel mio “Ore 8, sotto l’orologio” che in definitiva è una poetica descrizione del luogo dove è avvenuta la sommossa. In questi giorni, sempre da cittadino curioso non certo da studioso, ho letto il nuovo libro sull’argomento, pubblicato da Salvatore Coppola, anche sulla base di nuova documentazione degli atti del processo, dal titolo “Quegli oscuri martiri del lavoro e della libertà” (Giorgiani Editore-2015, pg 287). Il libro contiene anche un’appendice storico/bibliografica a cura di Francesco Accogli che prima riporta dei documenti interessanti e poi francamente cade nel grottesco quando vi aggiunge financo la notizia del 2014 (del tutto surreale) della potenziale produzione all’interno dei locali dell’ACAIT di sigari e rum cubani con la collaborazione del governo caraibico. Concetti oltretutto ribaditi dallo stesso Accogli nella Sala del Trono di Palazzo Gallone il 15 maggio 2015 durante la noiosa, verbosa presentazione condita di rimpalli di ringraziamenti che potevano essere risparmiati a chi semplicemente stava lì per capirci qualcosa in più. Ci sarebbero stati tanti temi su cui dibattere e invece un relatore diceva all’altro che si erano conosciuti tanto tempo fa….(Ma questo è un vecchio vizio delle presentazioni dei libri oltre di chi ama, in ogni occasione, ingraziarsi per semplice piaggeria il potente di turno).
In ogni caso lasciamo da parte l’orribile presentazione del libro e veniamo alla sua sostanza. Leggendo la corposa documentazione predisposta e ben articolata dall’autore, mi sovvengono delle considerazioni di base che possiamo dare ormai per acquisiste ed altre forse meno battute ed esplorate:
Il regime fascista non ammetteva scioperi o rivolte. Le forze dell’ordine avevano una legittimazione su ogni loro gesto, anche quando sparavano sulla folla (pur disarmata), appena ci fosse stata la minima percezione del pericolo. Non mi pare, a distanza di 80 anni, che le forze dell’ordine (che pure ogni anno partecipano alla commemorazione delle vittime) abbiano mai formalmente ammesso almeno un eccesso di difesa o chiesto scusa per quanto accaduto durante la manifestazione e successivamente nel corso del processo con testimonianze palesemente artefatte (vedi esempio carabiniere Cuna che era a Tricase da soli 3 giorni e riconobbe gran parte degli arrestati);
La rivolta del 15 maggio 1935 fu un fatto unico nell’ambito dello stato fascistizzato di quel decennio, eppure trattato dalla stampa con noncuranza e relegato ad un trafiletto nelle pagine interne della sola Gazzetta del Mezzogiorno come “violenza per ragioni di carattere locale, al fine di opporsi ad un’ispezione”. Le 5 vittime, i 22 feriti e i 74 fra arrestati e indagati erano un fatto così enorme che doveva essere secretato, perché quelli erano gli anni di maggior consenso al Partito/Stato e la Propaganda del Duce non ammetteva deroghe al plauso generale;
Salvatore Coppola tende ad immaginare una popolazione non propriamente fascistizzata, ma secondo me incorre in un errore di fondo. La disinformazione era così intensa, la Chiesa e la Scuola così vicine all’ideologie fasciste che attribuire una pur sottile forma antifascista alle popolazioni del sud (in maggioranza analfabetizzata) è pura utopia. Il popolo - come sempre nella storia d’Italia - non fa rivoluzioni, sale sul carro del vincitore e cerca di mangiare il più possibile, al massimo di sopravvivere ai soprusi con una silenziosa sottomissione; le grida collettive e costanti di quella sera del 15 maggio “Abbasso il Podestà, Viva il Duce, Viva il Re” devono essere considerate sincere e comunque rivelatrici della visione popolare dell’epoca; questo speciale revisionismo di S. Coppola mi è suonato strano anche alla luce del suo precedente lavoro Bona Mixta Malis;
La rivolta non fu un atto antifascista e le povere vittime non avevano alcuna cognizione politica, per loro il Duce era un semidio e andava bene così. Fu un atto che si materializzò in forme violente su ipotesi di spostamenti, riduzioni di produzioni, ma soprattutto di accorpamento di quello che oggi definiremmo management. Gli attori principali, quelli che furono indicati all’inizio come sobillatori, probabilmente sarebbero stati gli unici a veder modificato il loro status ed erano i primi a voler una manifestazione di massa che del resto una popolazione alquanto mite e devota al Regime non avrebbe potuto organizzare in maniera autonoma. Nessuno poteva ipotizzare né volere tale evoluzione tragica, ma certo si cercò di fare pressioni di vario tipo e tempestive sugli organi decisionali, prima con una petizione rivolta direttamente al Duce con la raccolta delle firme all’interno dell’Ass. Combattenti e poi con un assembramento che doveva semplicemente far sentire la voce diretta delle tabacchine;
Leggendo con attenzione parti delle memorie a discapito che gli avvocati difensori pronunciarono e scrissero durante le fasi processuali, si evince la grande cultura della classe forense dell’epoca. A parte l’uso quasi perfetto della lingua italiana, gli avvocati, soprattutto Michele De Pietro e Antonio Dell’Abate, nonostante il Codice Rocco, seppero trovare tutte le logiche motivazioni, le giuste testimonianze per provare l’inefficacia di un’inchiesta basata essenzialmente su dicerie anonime, per far assolvere quasi tutti gli imputati (anche se molti di loro restarono in carcere ben 11 mesi). Molte loro frasi e molti incisi fanno intravedere una libertà di espressione notevole, in considerazione del luogo, dell’epoca e dell’impostazione generale data all’inchiesta. Va inoltre ricordato il gesto dell’Avv. Dell’Abate che difese tutti gli imputati in modo gratuito, a dimostrazione di un’acuta sensibilità verso il brutale trattamento che avevano subito tanti suoi compaesani; chapeau agli avvocati, una volta tanto;
Dai documenti riportati in evidenza da Coppola traspare senza alcun dubbio una guerra fratricida per il potere che si consumava fra le famiglie acculturate, all’interno di quella classe dirigente che si divideva incarichi e ricchezze nella Tricase degli anni ’30. I signori di Tricase, l’un contro l’altro armato. Una guerra senza esclusione di colpi, che degenerò soprattutto dopo il 15 maggio ’35, coinvolgendo le famiglie più in vista della città: Aymone, Ingletti, Raeli, Cortese, Merico, Antonaci Dell’Abate, Barbara, Facchini, Sodero, Caputo. Il podestà Aymone (padre del famoso penalista Vittorio Aymone) fin dal primo momento indirizzò le indagini verso i suoi presunti nemici personali che avrebbero desiderato il suo posto o che avevano importanti privilegi dalla gestione del Consorzio Agrario; Evelina Antonaci Dell’Abate si lanciò in accuse ben precise, rivelatosi poi infondate, verso persone a lei antipatiche e comunque basate su quella cosa definita “la voce pubblica”; molti altri, soprattutto con lettere anonime volutamente sgrammaticate, cercarono attraverso questa vicenda di regolare una volta per tutte vecchi conti e risentimenti; all’interno di ogni famiglia c’era un qualcosa che andava segnalato come distorto rispetto alla logica fascista o alla morale cattolica: tutti potevano essere colpevoli (tranne il Duce, il Papa e il Re);
Come in un film dell’orrore, l’eccidio di alcuni poveri concittadini fece emergere le peggiori pulsioni dell’animo umano, in questo caso dei tricasini: decine di lettere anonime (alcune anche volgari – non pubblicate); accuse di partecipazione alla sommossa anche verso persone che non erano mai state in piazza; confidenti delle forze dell’ordine che riferivano ogni critica e ogni particolare che potesse suonare come offensivo verso il Regime; un intero paese dilaniato da piccole invidie e vendette, da consumare sulla pelle di decine di famiglie che avevano la sola necessità di lavorare e sopravvivere; contadini e tabacchine che venivano dipinti come facinorosi o violenti contestatori dell’ordine costituito dai loro stessi concittadini, magari da conoscenti o parenti (si tenga conto che all’epoca Tricase con le sue frazioni contava su circa 10.600 abitanti);
Quali sono state le conseguenze dei fatti del ’35, delle imputazioni, delle delazioni e delle assoluzioni sul tessuto sociale, sulle dinamiche politiche e addirittura sulla vita delle famiglie (e dei Signori) di Tricase? Il lavoro di Coppola chiaramente si ferma alla conclusione di quel processo, ma leggendo il libro, aumenta pagina dopo pagina la curiosità di attualizzare il combinato sociologico derivante da quell’episodio. In attesa del dovuto approfondimento di qualche studioso, qui posso solo rimarcare alcuni pensieri. Da quel momento nessun podestà andrà bene per Tricase, le lotte intestine e spesso anonime continuarono ben dopo il 1935; il prefetto era in continua fibrillazione e per ogni nuova nomina doveva cercare, in accordo con il Partito Nazionale Fascista, fra persone autorevoli che non fossero di Tricase e quindi non attaccabili per antipatie familiari. Le famiglie che durante il processo si erano scaraventate addosso qualche quintale di fango, trovarono una nuova collocazione sociale alla fine della seconda guerra mondiale, anche attraverso quel grande contenitore assorbente che era la DC, ma alcune differenze rimasero ben marcate nei decenni successivi. Nessuno passò al PCI, pochi divennero socialisti convinti, alcuni rimasero legati alla supremazia fascista, molti si misero sotto il cappello della Chiesa (o del cardinale) e fecero buoni affari. Ma la cosa per me più interessante è che da quel momento la popolazione, nella sua stragrande maggioranza, assunse un atteggiamento di diffidenza verso le vicende della politica, si convinse che era meglio starne lontano, appoggiare il potente di turno ed esprimergli nel colloquio confidenziale le proprie necessità, le proprie angosce (clientelismo invece di progetti comuni). Le cooperative non sono più esistite, la diffidenza verso le forme di aggregazione è stata sempre elevata, non si ricordano altre manifestazioni di dissenso verso il potere costituito. Dopo il 1935 a Tricase sembrava categorico “pensare ai fatti propri” che era l’inverso dell’idea universalistica per cui era nato il Consorzio Agrario nel 1904. E’ un’eredità esclusiva dei fatti del ‘35 oppure Tricase ha seguito la scia comune a tutta l’Italia del Sud del secondo dopoguerra? C’è una specificità nella sociologia tricasina che va ancora analizzata e studiata? Ci sono segnali del superamento dello shock che prima in maniera tragica e poi sotterranea ha attraversato il nostro novecento? Forse si, a fatica, forse.
il Volantino - 27 Giugno 2015 - Il Giornale di Puglia .it
Alfredo De Giuseppe