2019-10 "E io grido: attenzione alle leggi popolari" - 39° Parallelo
Le recenti vicissitudini della politica italiana, inclusa la pazza crisi dell’estate 2019, hanno riproposto il tema della democrazia diretta. Il M5S per decidere se fare o meno il nuovo governo è ricorso alla piattaforma di famiglia, chiamata Rousseau. Il popolo 5 Stelle, circa 70 mila persone, ha votato per il si, seguendo peraltro le indicazioni del fondatore B. Grillo e del capo politico, L. Di Maio. Le polemiche intorno all’uso strumentale di tale votazione via internet, senza alcun controllo reale della piattaforma gestita in modo padronale da Casaleggio, sembrano al momento superate da un semplice ragionamento: gli altri partiti hanno le segreterie e gli organi eletti, noi abbiamo il voto on-line. Punto.
In sostanza il Movimento rivendica una propria autonomia decisionale, originale rispetto ai partiti nati nel Novecento, ma non meno autorevole. Anzi l’imprimatur del voto digitale intorno alle decisioni più importanti consegna agli eletti maggiore responsabilità e consapevolezza del ruolo. Ma è proprio così? Senza andare agli studi di Montesquieu, partiamo dall’idea del referendum partorita dai costituenti italiani. La consultazione popolare su l’abrogazione delle leggi approvate dal Parlamento è un istituto ben disciplinato e alquanto complesso, per un semplice motivo: i legislatori erano ben coscienti di quanto la volontà popolare potesse essere facilmente orientabile e quanto potesse pesare l’emotività del momento. Di fronte ad un omicidio particolarmente efferato, un referendum immediato sulla pena di morte avrebbe un esito scontato: impiccagione subito, nella pubblica piazza. Il raziocinio, il parlamentarismo, la mediazione dei rappresentanti eletti impone invece altri percorsi, spesso più meditati e più virtuosi. Diciamolo apertamente: su questioni squisitamente tecniche è molto difficile che una larga parte della popolazione abbia le giuste competenze; su questioni costituzionali o di principi base, si voterebbe in funzione degli avvenimenti più prossimi, senza avere lo sguardo lungo che una carta costituzionale dovrebbe avere. Ben chiari erano questi concetti ai padri costituenti, tant’è vero che il primo referendum italiano, quello sulla scelta fra Monarchia e Repubblica ebbe risultati assolutamente diversi fra Nord e Sud. Quest’ultimo, vittima ancora più inconsapevole della propaganda fascista, invischiato in concezioni medievali della società, votò massicciamente per la Monarchia, che pure aveva perso la guerra, appoggiato la chiusura sostanziale del parlamento, controfirmato tutte le leggi totalitarie, imperialiste e razziste dei governi mussoliniani, che aveva lasciato Roma in tutta fretta al momento della battaglia. Da una veloce ricerca che ho fatto in questi giorni, ho potuto accertare che nella provincia di Lecce, la Repubblica ottenne in quel 1946 solo il 15% dei voti. Nel Sud Salento addirittura la Monarchia stravinse con circa l’88% dei votanti. Il Sud era stato liberato dagli alleati con una certa facilità, mentre al Nord dal 1943 al ‘45 era stata combattuta una vera e propria guerra civile: da una parte i Partigiani con gli Alleati e dall’altra i Repubblichini di Salò insieme alle truppe tedesche di Hitler. Al nord nasceva una vera consapevolezza della liberazione, mentre il Sud assorbiva agnosticamente un altro esercito vincitore (tranne rare e casuali eccezioni). Al Nord erano nate le cooperative e le lotte sindacali mentre al Sud era ancora dominante il sistema latifondista. Pochi ricchi possidenti avevano a disposizione una pletora di poveri disgraziati, senza cultura, senza assistenza e senza denaro. Nessuno osava parlare di cambiamenti, meno che mai l’altro pezzo di potere, la Chiesa cattolica, che per poter sopravvivere aveva ceduto su quasi tutti i principi ispiratori del suo fondatore. Per la prima volta votavano tutti, uomini e donne, bastava avere 21 anni, senza distinzioni. Finalmente il suffragio universale, si potrebbe esclamare. Eppure le forze della conservazione, quelle del timore del futuro, formavano nel nostro Sud la stragrande maggioranza. Il popolo votava, ma il popolo non aveva gli strumenti per scegliere. Era anzi esso stesso semplice strumento in mano ai potenti di turno, fossero politici o possidenti.
Insomma la storia ci insegna che la democrazia diretta è molto pericolosa. La democrazia parlamentare è invece più complessa e tortuosa, mediata da cittadini eletti, forse ambiziosi ed egocentrici. non sempre di specchiata moralità, ma certamente meno impulsiva e prepotente. In ogni caso studiata da grandi studiosi del diritto con pesi e contrappesi, organi deliberanti e altri di controllo.
Ed ecco perché alcune ipotesi di riforma avanzate in questi anni basati sulla raccolta del facile consenso, mi lasciano molto perplesso. La riduzione dei Parlamentari, l’introduzione del vincolo di mandato e la modifica dell’istituto referendario sono tre scenari allucinanti che portano direttamente verso una forma dittatoriale mascherata da democrazia dal basso, da pieni poteri ad una piccola schiera di votanti (del web) Brevemente: la riduzione dei parlamentari, venduta come la risposta agli sprechi di questi ultimi decenni, significa invece un maggiore controllo delle segreterie su un numero sempre più basso di uomini e donne, eletti al di là di ogni logica territoriale; il vincolo di mandato conferisce ufficialmente al parlamentare eletto lo status di marionetta, non potendo esso stesso mai esprimere dissenso rispetto a quanto espresso dal partito/movimento (magari con un unico capo/guru/bello/carismatico). La possibilità di poter votare senza un quorum per proporre nuove leggi, e non solo per abrogarle, svuota di fatto la funzione parlamentare, che invece deve essere libera e svincolata da forzature minoritarie. Come esempio valgano i referendum di alcune regioni del Nord sulla maggiore autonomia. Era scontato che quei cittadini chiedessero maggiore autonomia, senza calcolare fino in fondo i danni collaterali di tale decisione. Il Parlamento su questo tema, giustamente, tentenna, perché ha avuto modo di analizzare con maggiore attenzione tutte le problematiche, tutte le spaccature che una tale decisione porta in sé.
Se usciamo per un attimo da questo volgare tempo di discussioni con annessi “like”, potremmo vedere con chiarezza i rischi di una democrazia diretta, senza intermediazioni, senza filtri e senza approfondimenti. Si può riformare molto (anche la Costituzione) e tutto è modificabile nella storia dell’uomo, ma la direzione del cambiamento e le sue modalità non sono cose secondarie.
39° Parallelo, ottobre 2019
Alfredo De Giuseppe