Libere fenomenologie del 2022-10-15 - ...Dante e compagnia...

      

 

Nella sala 1 del Paradiso di Tricase, ho visto in settimana il Dante di Pupi Avati. Se il film, come quasi tutti quelli del regista bolognese, mi è piaciuto a metà, ho colto l’occasione per una più larga riflessione sul Sommo Poeta e sulla nostra Italia. E infine forse sul nostro destino di uomini, quando vogliamo essere amanti delle arti e al contempo attori della vita civica.

Intanto una piccola, breve, inutile riflessione sulla scuola: è riuscita, nel corso degli ultimi tre secoli, a far odiare Dante a milioni di studenti. Un grandioso affresco storico, politico, culturale usato quale gioco di memoria o al massimo come dimostrazione della  fase di passaggio dal latino all’italiano, attraverso il dolce stil novo. Sarebbe stato interessante approfondire dapprima il contorno storico, poi il lato umano del Poeta e infine iniziare la lettura della “Commedia” con un maggior senso della grandezza di tale opera. Perché in definitiva fu un romanzo fantastico, scritto in almeno vent’anni, da un uomo in fuga, esule per aver partecipato alla vita politica della propria città, per aver osato mettere in discussione le azioni temporali e corruttive del Papa di Roma. Inseguito tra l’altro da una condanna al rogo. Un’opera che si auto-nutriva della sofferenza e al contempo si realizzava con estrema difficoltà, in un continuo girovagare dentro un’Italia solo metaforica, formata da piccoli Regni e piccoli Comuni, facilmente conquistabili da qualsiasi esercito straniero (“Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!»). Ripensando agli anni del Liceo, mi viene un pensiero: sarebbe stato bello capire fino in fondo Dante perché avrebbe significato interpretare al meglio le origini dei nostri guai. Ma la scuola, ancora oggi, ha difficoltà a far interpretare il presente insegnando il passato. Per fortuna rispetto a qualche decennio fa si sono moltiplicati divulgatori poco ortodossi – tipo Piero Angela o Alessandro Barbero – per far intuire al meglio le interconnessioni fra i tempi, i luoghi, le scienze e le arti. La scuola è invece ancora ferma alle discipline monotematiche, troppo spesso vissute come esclusive dagli insegnanti di ogni ordine e grado. Nel 2021 è stato ricordato in tanti modi  il settimo centenario della sua morte, avvenuta in Ravenna nel 1321, ma pochi hanno inteso modificare la modalità di insegnamento di quella tappa fondamentale che ha rappresentato la Divina Commedia per l’Italia unita, la sua lingua musicale, la sua immensa cultura.

Quel che rimane poco rimarcato è come la vita di Dante sia essa stessa un poema, un romanzo epico, un cantico alle difficoltà dell’uomo, alle sue limitazioni, gelosie, perversioni e ipocrisie. Anche l’amore è affrontato come fine di un sogno, come aspirazione mai raggiunta, difficilmente come completamento relazionale tra uomo e donna. Dante uomo normale, nel senso più rimarchevole della parola: non un intellettuale chiuso nel suo studio ma un uomo del popolo che cerca di dare alla sua città una maggiore dignità, una sua indipendenza, nella logica e nella religiosità del tempo. Mai dobbiamo dimenticare che ognuno di noi opera, pensa e scrive in relazione al luogo e tempo che vive e mai dobbiamo commettere l’errore di considerare una qualsiasi cosa scritta come valore universale e infinito o peggio ancora dettame assoluto della modalità di vivere e di amare.

Tra i tanti, mi vengono in mente due nomi del nostro tempo, che possono ricalcare le vicende umane di Dante: uno è Salman Rushdie e l’altro è Roberto Saviano. Il primo è stato oggetto di una fatwa da parte dell’Ayatollah Khomeyni dopo la pubblicazione de “I versi satanici” (1988). Dopo diversi tentativi di assassinio e minacce di morte, è stato ferito gravemente lo scorso 12 agosto in un paesino vicino New York dove il romanziere doveva tenere una conferenza. Al momento non ci sono notizie certe sulle sue condizioni di salute. L’altro ha osato scrivere con estrema chiarezza della malavita della sua terra, un libro con nomi e cognomi pubblicato col titolo “Gomorra” nel 2006 quando Saviano aveva solo 26 anni. Dopo quel successo, per il sol fatto di aver masso in fila una serie di episodi, molti dei quali atti formali di processi già conclusi, per il fatto di aver finalmente scritto con chiarezza sulla vicinanza di camorra e politica, Roberto fu minacciato di morte. Da allora vive sotto scorta, in una vita che lui ormai ritiene uguale a quella dei condannati da lui menzionati.

Entrambi questi due personaggi vivono da esuli, transfughi nella loro stessa terra e tuttavia dileggiati da una moltitudine di persone, non necessariamente fanatici religiosi o camorristi. Sono letteralmente odiati da una buona parte della popolazione che loro invece volevano più libera e benestante, per il semplice fatto di aver discusso lo status quo, di aver toccato con forza e chiarezza un nervo che fa esplodere ogni contraddizione.

La fermezza delle proprie idee, a costo della ricchezza e della serenità, perché forse solo questo dà un senso alla nostra esistenza inserita dentro una comunità più vasta, che non sia sempre e soltanto la propria famiglia. O per dirla con Dante:  “Libertà va cercando, ch’è sì cara/come sa chi per lei vita rifiuta.” 

il Volantino, 15 ottobre 2022

Alfredo De Giuseppe

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