2020-06-13 "Non è l’atto finale di un autore che vive anche di auto-sabotaggi", di Ginevra Stellarini - Il Volantino
Chi abbia voglia di farsi quattro sane risate, dovrebbe leggere "Ore otto sotto l'orologio", un piccolo gioiello di sociologia contemporanea; chi abbia voglia di conoscere il panorama salentino, dovrebbe leggere "Best, Sindaci e Farfalloni", e così via con i 14 libri di Alfredo De Giuseppe. Chi invece abbia voglia di conoscere il vero struggimento, una sorta di malinconica nostalgia, un abisso imperscrutabile dove non può passare un filo d'aria, può leggere il suo quindicesimo libro, edito in questa pandemica Primavera 2020, dal titolo "Pensieri duraturi del niente".
Il libro è come un sarcofago, un mausoleo che vuole incastonare i momenti più belli di una vita passata, senza nessuna banalità, anzi con una profondità semplice, la profondità vera. È una tendenza già vista in "Tutino" e "Tramonti di Tramonti": sono libri in cui, a leggerli attentamente, si direbbe che tutto è perduto, l'eroe è sconfitto, del futuro non c'è traccia, non c'è progettualità, c'è solo un presente ormai inutile e un passato a tratti divertente, a tratti incomprensibile all'autore stesso, a tratti dolcissimo, certamente mitico, nel senso proprio di mito: il paesello medievale dell' infanzia, con i suoi personaggi rassicuranti, il grande amore di una vita, il gruppo giovanile di Tutino, e alcune estemporanee, diremmo "in esterna", la Svizzera dei migranti italiani, le importazioni sconclusionate in Lituania, la stanza da ballo di Los Angeles con dentro una donna triste nel completo anonimato, in contrasto con la narrazione del paese di provincia, dove nessuno è mai anonimo, anzi si crea un racconto pubblico di cui tutti fanno parte, nessuno escluso, e la Svizzera, l’Ungheria o la California, sono brevi flash ma insignificanti agli occhi dell'autore, mai davvero interessanti, un po' come Checco Zalone quando imitando i Negramaro dice: "San Francisco, questo posto a occidente del più famoso Salento". Il Salento, e in particolare Tricase, è per Alfredo il vero centro del mondo, quasi un luogo chiuso dentro cinta antiche, certo si parla di attualità e di quel che accade nel mondo, ma con una centralità che in altri posti non esiste, per intenderci davvero a Milano se si parla del mondo ci si sente nel mondo. A Tricase è come essere fuori dal mondo, o anche come avere un telecomando da cui si guarda il mondo, qualcosa del genere.
Dunque, in questo libro non c’è spazio per il futuro, e neanche per il presente o per il passato prossimo, per un aneddoto successo Lunedì scorso, per un episodio di due giorni fa: se ci limitassimo alla lettura di questo libro, penseremmo che è come se per l'autore i dadi siano già tratti, il presente è insignificante, ha valore solo il passato anzi il trapassato, e più è remoto più ha valore. Che senso può mai avere una stagione primaverile del 2020, perdi più condita da una pandemia mondiale? Se per quanto riguarda lo spazio, all’autore pare in fondo insignificante tutto ciò che sia lontano da Tricase (insignificante non a livello culturale, su cui è anzi molto informato, ma a livello sentimentale ed emozionale: non ci può emozionare davvero a Los Angeles), le cose non vanno così per il tempo, che invece per emozionare deve essere lontano. Per cui, ricapitolando, crea struggimento un qualcosa vicina nello spazio e lontana nel tempo, insomma un po' come fantasmi che continuano a gironzolare in luoghi che furono, in castelli in rovina in cui, da trapassati, continuare a vagare, con catene e fardelli vari di rimpianti, rimorsi, ricordi e chi più ne ha più ne metta. Nel libro, nella sua struttura, non filtra un solo raggio di sole perché non lo si vuole far filtrare, la finestra viene volontariamente sigillata sin dal titolo, la persiana obbligatoriamente chiusa sin dall’immagine di copertina, in segno di lutto. Lo struggimento è una scelta, per la serie "naufragar m’è dolce in questo mare", c'è una dolcezza nera in quel naufragio, è un dondolio nell’assurdo rassicurante di una zattera nell’oceano.
Se Alfredo De Giuseppe non lo conoscessi e leggessi solo questo libro, penserei che è un addio alla vita di un ottantacinquenne solo sul ciglio di una strada, ma invece lo conosco e so che di anni ne ha una sessantina, in una società dove i 60 anni non sono percepiti come appena 20 anni fa, dove Giuseppe Conte appare un ragazzino rispetto a Mattarella, e lui è quasi un coetaneo di Conte, nel senso che se andasse in tv avrebbe quel tipo di impatto anagrafico; se non fosse che è in ottima salute, se non fosse che ha 4 figli che lo amano molto; se non fosse che ha una bella donna (di Tricase) come compagna, circola con la sua macchina simbolo, una vecchia Ford Scorpio, ha una casa molto intima e graziosa, ok non è la campagna mitica con il giardino zen, ma è una casa funzionale, se non fosse che continua la sua solita carriera nella Distribuzione Organizzata, cioè quel che stiamo cercando di dire è che a leggere questo libro senza conoscere l'autore sembrerebbe davvero la biografia di un uomo che ha sbagliato molto e che ora, solo e vecchio, sul ciglio di una strada sperduta come quasi un homeless, racconta a un passante distratto la sua vita di stenti e fallimenti. Questo struggimento, a far mente locale, era identico in lui anche a 30 e 40 anni, è una latenza che c’è sempre stata, e la scrittura è come se rappresenta un momento un po' onnipotente e un po' di serbatoio oscuro in cui quella latenza esplode, e in tale oscurità è lui stesso ad essere incredibilmente attratto dagli sconfitti, questa è la verità, in maniera artistica e romanzesca certo, da "Ultima osteria", ma la sua è un’attrazione forte, autentica, per le storie al limite, per i borderline, per i reietti, per le linee di confine: lui non ha simpatia per l'eroe netto, a lui piace l'anti-eroe, al massimo, se proprio deve, per qualcuno che sia metà e metà, insomma purché non sia il primo della classe ecco, che di base gli sta davvero antipatico, e ha fatto quindi di tutto pur di rientrare a sua volta -in qualche modo- nella categoria, pur di non essere lui quel primo della classe, ricorrendo se necessario, qui e lì nei decenni, ad alcuni auto-sabotaggi ma senza riuscirci mai del tutto, infatti resta in lui un'aura potente e regale, da re di spade, che si manifesta nella vita di tutti i giorni e a contatto con gli altri.
In ogni caso il libro, per le dinamiche terapeutiche a cui anche la scrittura serve (la scrittura è notoriamente un luogo di terapia), resta pertanto un buon posto in cui buttare ricordi struggenti di una vita inafferrabile, che già mentre la mordi fugge via. Molto presente anche il tema della fuga inconscia, di qualcosa che sfugge: la ragazzina enigmatica e incomprensibile, sfuggente e chiusa in una dimensione agli altri inaccessibile, che farebbe sentire rifiutato, sottilmente umiliato e non ben accetto chiunque le graviti intorno, la donna di Los Angeles che saluta per andare via e perdersi nel nulla della sua solitudine, gli attimi sfuggenti, la vita che scappa, insomma a leggere il libro si direbbe una fuga totale che sfocia in un nichilismo assoluto, un cinismo romantico ma pur sempre cinico, un'angoscia quasi totale, cosmica, da cui invece paradossalmente non c’è via di fuga, senza nessuna vera presenza umana, né tantomeno divina, senza nessun Dio, neanche quello del catechismo per bestemmiarlo un po’, senza amore, senza uccellini che cantano, senza una donna che sa amare e sa lasciarsi amare, che dia una presenza naturale e non da rincorrere ogni minuto con il terrore di perderla, senza un futuro, senza sorrisi di cuore, senza un bambino che abbracci spontaneamente, nel libro anche i figli non compaiono mai, forse perché non inseribili e non idonei nei racconti di stampo Bukowski , tra un whisky e una metafora forse sexy, chi lo sa. Insomma, se non conoscessi Alfredo De Giuseppe che scrisse " Miracoli e birre” facendo diventare il “senzapensieri” una categoria umana molto invidiabile, in cui emerge la dicotomia fra la sua spinta propulsiva verso la vittoria e la sua ricerca volontaria -per contraltare e per compensare l’antipatia della vittoria- della disfatta, in un’altalena quasi napoleonica e in ogni caso di un condottiero forte, triste e allegro allo stesso tempo. Insomma leggendo questo libro penserei che è stato scritto da un essere umano vicino al suicidio universale, alla morte finale, al dramma esistenziale e fatale, al non-sense della vita, a chissà quale terribile malattia, alla tragedia umana, dove anche la commedia è al massimo un istante tra due immense tragedie.
Ma, ahinoi, ho avuto modo di conoscere molto bene l’autore, seppur soprattutto per tramite del suo lavoro, e so per certo che in questo esatto momento che scrivo questa recensione starà al telefono a ridere con qualcuno, davvero senza pensarci, starà parlando della riunione di domani pomeriggio, o starà adesso stesso in una qualunque sala riunioni, in ruolo di leadership e carisma naturale, starà dando cento ordini a cento persone diverse, stasera non vedrà l'ora di informarsi su cosa è accaduto nel mondo e nelle stanze del suo Municipio, domani mattina non vedrà l'ora di scrivere una cosa nuova, dopodomani andrà chissà dove per una nuova idea, senza cambiare il suo schema (nel frattempo scrive la sua settimanale rubrica per il giornale tricasino).
Quindi questo libro-sarcofago (ho dimenticato un aggettivo, è Bellissimo con la B maiuscola, si legge tutto d'un fiato) resta al lettore, in questo caso a me, che deve poi deciderne il da farsi, lui l'avrà già dimenticato.
Comunque è proprio vero che in tutti noi coabitano più personalità misteriose: il personaggio del "solo e vecchio" che abita dentro di lui, che narrativamente si traduce in un Bukowski più romantico e con un suo stile comunque personale, è un personaggio che compare sporadicamente nella vita vera e compare con pienezza artistica solo nella scrittura, insomma alle 12:10 del 28 Maggio 2020, mentre scrivo, lui starà da qualche parte impegnato a dirigere, per cui l'appuntamento con "lui" è rimandato al 16esimo libro. Ora qui è quasi ora di pranzo, vado a cucinare. Alla prossima.